UOMO DI DIO PERDONA SETTANTA VOLTE SETTE

L’attitudine al perdono come segno della libertà del discepolo di Gesù: la parabola del servo spietato. (Matteo 23-35)

I Promessi sposi è uno dei più grandi capolavori della letteratura mondiale. Scritto da Alessandro Manzoni (1785-1873), è un avvincente romanzo storico, sospeso tra realtà e finzione, in cui prevalgono i temi più rilevanti della fede cristiana come la fede, l’amore e il perdono. Gli avvenimenti raccontati nel romanzo accadono nella Lombardia della fine degli anni venti del XVII secolo(1628-1630). E’ la storia di un matrimonio di due operai tessili del lecchese, Renzo Tramaglino e Lucia Mondella ostacolato da un prepotente signorotto, Don Rodrigo, che è causa di innumerevoli sofferenze causate alla coppia di fidanzati. Nell’intreccio drammatico del racconto si staglia la figura carismatica di Padre Cristoforo, uomo di profonda spiritualità cristiana, sempre pronto a venire incontro alle necessità dei deboli.

La storia della vita di Padre Cristoforo viene narrata dal Manzoni al cap. 4. I tratti biografici fatti risaltare dallo scrittore sono finalizzati a descrivere vividamente una storia di conversione. Padre Cristoforo, al secolo Lodovico, era figlio di un ricco mercante ed aveva contratto abitudini signorili. Fu coinvolto in una rissa tra signorotti, in cui rimasero uccisi un suo bravo e il signorotto prepotente trafitto dalla sua spada. Morso da dolore di avere ucciso un uomo, si pente, dona tutti i suoi beni e indossa il saio dei Cappuccini, investendo l’intera esistenza al servizio cristiano. Ma la prima azione che egli compie di umiltà cristiana è quella di chiedere perdono alla famiglia del nobile ucciso. La descrizione dell’atto solenne di richiesta di perdono è commovente: Quando vide l’offeso, affrettò il passo, gli si pose inginocchioni ai piedi, incrociò le mani sul petto e, chinando la testa rasa, disse queste parole: – Sa Iddio se vorrei restituirglielo a costo del mio sangue; ma, non potendo altro che farle inefficaci e tarde scuse, la supplico d’accettarle per l’amore di Dio” … Oh s’io potessi sentire dalla sua bocca questa parola, perdono! …” Perdono? -disse il gentiluomo. “Lei non ne ha più bisogno. Ma pure, poiché lo desidera, certo, certo, io le perdono di cuore…”(1)

Il perdono è un moto indelebile dell’animo cristiano. E’ un segno di libertà del cristiano. Un cristiano che non è animato dalla forza del perdono, è un uomo religioso che blatera e biascica parole morte. Gesù fortemente enfatizza nel suo insegnamento e anche nella sua azione la predisposizione del suo discepolo a perdonare. In particolar modo, la libertà di perdonare è vividamente raccontata nella parabola del Servo Spietato (Mt18:23-35).

La parabola è inserita nel contesto della vita disciplinare della comunità: chiedere e concedere il perdono è un aspetto vitale della chiesa. Inoltre, l’esercizio del perdono è illimitato vanificando la comprensione legalistica peraltro simpatica di Pietro, che estendeva fino a sette volte il perdono contro la regola restrittiva rabbinica dei “tre volte”. E’ la misericordia che deve prevalere sul diritto. Questo principio evangelico ha la sua ragione d’essere proprio nel carattere di Dio, “che ha donato il Suo Unigenito Figlio, affinché chiunque crede in Lui non perisca, ma abbia vita eterna”(Giov.3:16). La parabola del Servo Spietato contiene in sé la misericordia Dio, la quale diventa paradigma anche per i discepoli di Cristo. Essa è allo stesso tempo è esortativa e ammonitrice.

Se la analizziamo in dettaglio, essa sembra scorrere davanti ai nostri occhi come uno stringato ma vivido cortometraggio cinematografico composto di tre scene: le prime due sono simmetriche evidenziano il comportamento contrastante dei due creditori (24-27;28-30); la richiesta accorata dei due debitori formulata con le stesse parole, ma avente esito diverso (v.26 e v.29); la terza scena è tragica, fa risaltare l’azione punitiva del re nei confronti del perfido servo (31-34).

Come è suo solito fare, Gesù narra una storiella che colpisce per le sue esagerazioni. Paragona il Regno dei Cieli a un sovrano orientale, che chiede il resoconto della gestione finanziaria delle sue province. Il servo può essere un satrapo, che è rimasto in debito del ricavato delle imposte della sua provincia. La somma che deve restituire è di incalcolabile valore (se un talento valeva all’incirca 6000 denari e un denaro era la paga giornaliera di un lavoratore, diecimila talenti sono una cifra esorbitante), supera ogni circostanza reale. Qui, Gesù esagera nel fissare il debito perché vuole che l’uditorio vada oltre il significato reale del racconto. Proseguendo nel racconto, Gesù descrive in maniera vivida la reazione del sovrano, il quale ordina che il satrapo sia rinchiuso nelle galere e che tutti i suoi familiari siano venduti per poter risarcire il danno. Abbiamo un’altra esagerazione, perché la vendita dei familiari non avrebbe potuto coprire tutto il debito. Probabilmente, Gesù vuole fare risaltare l’ira del sovrano per il danno subito. Di seguito, viene descritta la reazione emotiva del satrapo: si inginocchia, supplica il suo sovrano perché abbia pietà di lui, promettendo di sanare il suo debito, cosa che non può onorare per l’enormità del debito accumulato. Il sovrano, mosso da compassione, lo lascia libero, condonandogli il debito.

Certamente, possiamo immaginare la gioia incontenibile che avrebbe provato il satrapo nel sapere che il suo enorme debito è stato condonato.

Adesso Gesù, continuando la sua storia, descrive una nuova scena, contrastante con la prima, in cui i protagonisti sono il satrapo graziato e un suo subalterno, il quale gli deve una modica somma di cento denari, un debito facilmente ripianabile (corrispondeva a circa quattro mesi di paga di un lavoratore). Si ripetono le reazioni dei protagonisti precedenti, il satrapo che chiede al suo conservo di sdebitarsi e il conservo che, inginocchiatosi, lo supplica di pazientare, perché avrebbe senz’altro onorato il debito contratto. In questa scena, abbiamo una reazione del creditore diversa dalla precedente: insensibile alle suppliche, con durezza e spietatezza lo fa imprigionare in attesa di risarcirlo dei danni subiti (La tortura era applicata in Oriente contro governatori morosi del versamento delle imposte, con la finalità di estorcere dai loro parenti e amici) (2)

Di nuovo, cambia lo scenario. Il re è informato dell’accaduto, adirato lo riprende con asprezza, punendolo severamente per la sua indegna condotta, imprigionandolo fino a quando non avesse pagato il debito.

Certamente, una siffatta storia drammatica senz’altro causa emozione, riflessione e anche reazione. L’uditore è portato a considerare una verità evangelica al di là del significato reale del racconto. Si interroga intorno alla reale persona che sta dietro il sovrano e dietro i satrapi. Se Matteo ha inserito la parabola all’interno della convivenza ecclesiale, nella quale deve vigere l’armonia e la serena cooperazione, ciò è attuabile se, qualora vi fossero comportamenti, azioni e parole lesivi dell’integrità del proprio fratello, è liberamente esercitata la pratica evangelica del perdono. Esso ha un principio teologico fondamentale: Il Signore grazia il peccatore umiliato e contrito, il quale da sé non può mai pagare il suo “debito” contratto con Dio. Riconoscendo la sua pochezza e incapacità, si getta ai piedi del suo Signore perché lo perdoni. Ci troviamo davanti al punto cruciale della parabola: il peccato è come un debito pecuniario che supera ogni immaginazione, che non può mai essere espiato con le sole forze umane. L’uomo penitente si prostra umilmente davanti al Suo Signore, perché lo grazi. Questo principio teologico è applicato nel rapporto tra i cristiani (ma il credente è chiamato a perdonare anche chi non lo è), il cui “debito” è in misura inferiore al primo. Se il Signore ha perdonato, anche il discepolo fa la stessa cosa a chi glielo chiede.

“Il punto di partenza per l’interpretazione del racconto è la metafora fondamentale che le colpe dell’uomo nei confronti di Dio sono paragonabili ai debiti pecuniari di questo mondo. A questa metafora fondamentale si ricollega anche la diversa entità delle due somme: il contrasto tra il debito con il padrone, incommensurabile, e quello irrisorio con l’altro servo rimanda alla differenza tra il rapporto Dio-uomo e il rapporto uomo-uomo. (3)

Sembra che risuoni in questa parabola la quinta beatitudine: “Beati i misericordiosi perché a loro misericordia sarà fatta”(Mt5:7). L’aspetto distintivo del discepolo è concedere il perdono a chi lo chiede, nutrendo costantemente siffatta virtù evangelica nei confronti di chi ha causato un danno. La parabola non esprime un principio astratto, ma si basa su un evento, il dono divino di Cristo, che riscatta il debito dell’uomo contratto con Dio. L’evento Cristo è il paradigma del perdono cristiano. Dio è misericordioso, anche i cristiani lo sono in Cristo. Se un cristiano non vive di cuore il perdono e lo rifiuta a chi lo chiede, facendo valere il suo diritto, vacilla la sua confessione di essere un seguace di Gesù, rischiando il severo giudizio di Dio. La misura della misericordia è l’aspetto discriminante nel giudizio finale: “…Dove la remissione di Dio produca una sincera disposizione alla remissione, la misericordia di Dio assolve; ma colui che cattivo uso del dono di Dio, cade sotto tutta l’asprezza del giudizio, così come non avesse mai ricevuto la remissione (Mt6:14). (4)

Commoventi sono le parole del Manzoni messe in bocca a frate Cristoforo nell’intento di piegare il furore vendicativo di Renzo nei confronti del perfido Don Rodrigo, gravemente ammalato di peste:

“…T’ho ascoltato quando chiedevi consolazione e aiuto; ho lasciata la carità per la carità; ma ora tu hai la tua vendetta in cuore; che vuoi da me? Vattene. Ne ho visti morire qui degli offesi che perdonavano; degli offensori che gemevano di non potersi umiliare davanti all’offeso; ho pianto con gli uni e con gli altri; ma con te che ho da fare? Ah gli perdono! Gli perdono davvero, gli perdono per sempre!- esclamò il giovine…..Renzo, girando , con una curiosità inquieta, lo sguardo sugli altri oggetti, vide tre o quattro infermi, ne distinse uno da una parte su una materassa, involtato in un lenzuolo, con una cappa signorile indosso, a guisa di coperta: lo fissò, riconobbe don Rodrigo, e fece un passo indietro; ma il frate, facendogli di nuovo sentir fortemente la mano con cui lo teneva, lo tirò appié del covile, e, stesovi sopra l’altra mano, accennava col dito l’uomo che vi giaceva.

Stava l’infelice, immoto; spalancati gli occhi, ma senza sguardo; pallido il viso e sparso di macchie nere; nere ed enfiate le labbra: l’avreste detto il viso d’un cadavere, se una contrazione violenta non avesse reso testimonio d’una vita tenace. Il petto si sollevava di quando in quando, con un respiro affannoso; la destra, fuor della cappa, lo premeva vicino al cuore, con uno stringere adunco delle dita, livide tutte, e sulla punta nere.

Tu vedi! Disse il frate, con voce bassa e grave. Può essere castigo, può esser misericordia. Il sentimento che tu proverai ora per quest’uomo che t’ha offeso, sì; lo stesso sentimento, il Dio che tu pure hai offeso, avrà per te in quel giorno. Benedicilo, e sei benedetto. Da quattro giorni è qui come tu vedi, senza dare segno di sentimento. Forse il Signore è pronto a concedergli un’ora di ravvedimento; ma voleva esserne pregato da te; forse vuole che tu ne lo preghi con quella innocente; forse serba la grazia alla tua sola preghiera, alla preghiera d’un cuore afflitto e rassegnato. Forse la salvezza di quest’uomo e la tua dipende ora da te, da un tuo sentimento di perdono, di compassione …d’amore! Tacque; e, giunte le mani, chinò il viso sopra di esse e pregò; Renzo fece lo stesso” (5)

(1) Alessandro Manzoni- I Promessi Sposi-Mondadori ed, 1995, pag 66-67

(2) Joachim Jeremias- Le parabole di Gesù-Paideia ed, BS 1973, pag.258

(3) Hans Weder. Metafore del Regno-Paideia ed, BS 1991, pag.255-256

(4) Joachim Jeremias- op.cit.-pag.260

(5) Alessandro Manzoni- I Promessi Sposi- op. cit. pagg. 592-594

Paolo Brancè | Notiziecristiane.com

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