
Nel 1537, dal suo rifugio di Wittenberg, Martin Lutero scriveva nel suo commento al Magnificat: “Maria non vuole essere un idolo, lei non fa nulla, Dio fa tutto”. Un’affermazione che racchiude il complesso e contraddittorio rapporto del padre della Riforma protestante con la Vergine Maria.
La figura della Madonna, pietra d’inciampo e terreno di confronto tra cattolici e protestanti, divenne con Lutero oggetto di una revisione teologica che, pur spogliandola di molti attributi tradizionali, non arrivò mai a un completo rifiuto. Il monaco agostiniano che aveva sfidato Roma conservò infatti, per tutta la vita, una forma di devozione mariana personale che traspare dai suoi scritti più intimi.
Da buon figlio della Germania medievale, Lutero era cresciuto nell’ombra delle cattedrali gotiche dedicate a Nostra Signora e nei canti popolari che celebravano la “dolce Madre di Dio”. “Non si dovrebbe dire ‘Ave Maria’ come se volessimo fare di lei una dea”, tuonava dal pulpito il riformatore, ma poi aggiungeva: “Maria è degna del più alto onore, ma non vuole essere equiparata a Cristo”. Ecco il paradosso luterano: un attacco frontale al culto mariano medievale che celava un’ammirazione mai sopita.
La critica di Lutero era indirizzata non tanto alla Madonna in sé, quanto a ciò che egli considerava un’idolatria cattolica: “Hanno trasformato la Madre di Dio in una divinità sostitutiva”, scriveva nei suoi “Discorsi a tavola”.
Per il monaco ribelle, il problema era che la devozione popolare aveva elevato Maria a un rango quasi divino, offuscando il primato di Cristo come unico mediatore tra Dio e l’uomo. Nel 1518, appena un anno dopo l’affissione delle 95 tesi, Lutero dichiarava: “Maria è la più alta creatura dopo Cristo, ma nulla in confronto a Lui”. Una posizione che manterrà coerente fino alla morte. Nel suo commento al Magnificat del 1521, Lutero esprime una vera e propria ammirazione per la “purissima Vergine”, lodandone l’umiltà e la fede.
Ma il colpo più duro alla mariologia tradizionale arriva quando il riformatore attacca i dogmi: “Non vi è alcun fondamento nelle Scritture per l’Assunzione o per l’Immacolata Concezione”, asseriva senza mezzi termini. Per Lutero, solo ciò che aveva un chiaro fondamento biblico poteva essere oggetto di fede. E così Maria diventava, nelle sue parole, “la serva del Signore, non la regina del cielo”. Eppure, leggendo tra le righe dei suoi sermoni, si scopre che fino all’ultimo Lutero mantenne nelle sue cappelle le immagini della Madonna e continuò a predicare nelle feste mariane.
Nel suo testamento spirituale affermava: “Maria è il più grande esempio di grazia divina. In lei vediamo come Dio innalzi gli umili”. Il teologo cattolico Hans Küng ha notato come “la mariologia di Lutero rappresenti non tanto un rifiuto quanto una purificazione”. Non una negazione, ma una ricollocazione della Madonna all’interno di una teologia rigorosamente cristocentrica.
Per il monaco ribelle, Maria era il modello perfetto del credente che si abbandona alla grazia divina, esattamente ciò che egli predicava con la dottrina della “sola fide”. Nel suo ultimo sermone sulla Visitazione, nel 1544, Lutero dichiarava: “Maria non è stata salvata dalla sua verginità o maternità, ma dalla sua fede”. Una frase che racchiude tutta la sua teologia mariana: la Madonna non è importante per i suoi privilegi, ma per la sua risposta di fede alla chiamata divina.
Lo storico della Riforma Heiko Oberman ha scritto che “la Madonna di Lutero è spogliata dei suoi attributi medievali ma conserva una dignità unica nella storia della salvezza”. Una posizione che influenzerà tutto il protestantesimo successivo, dove Maria non sarà mai completamente dimenticata, ma rimarrà in un cono d’ombra rispetto alla tradizione cattolica. “Ho visto troppe statue della Madonna adorate come idoli”, scriveva Lutero nei suoi ultimi anni, “ma non ho mai cessato di venerarla nel mio cuore come la Madre del mio Salvatore”.
Una confessione personale che rivela il dissidio interiore di un uomo diviso tra la purezza evangelica che cercava e la pietà popolare in cui era cresciuto. Quando i riformatori più radicali come Carlostadio e Zwingli iniziarono a distruggere le immagini sacre, Lutero prese le distanze: “Un conto è dire che non si deve adorare le immagini, un altro è distruggerle come fanno questi fanatici”.
La Madonna di Lutero doveva essere spogliata del suo mantello regale, ma non gettata via con l’acqua sporca della superstizione. Nel suo “De servo arbitrio” del 1525, Lutero definisce Maria “il capolavoro della grazia divina”, riconoscendole un posto unico nella storia della salvezza. Ma è sempre una grandezza riflessa, derivata interamente dal suo rapporto con Cristo, mai autonoma. Il riformatore mantenne sempre ferma la dottrina della verginità perpetua di Maria, definendola un “articolo di fede” anche quando altri protestanti iniziavano a metterla in discussione.
Nei suoi sermoni sul Natale, continuò a chiamarla “Madre di Dio” (Theotokos), rifiutando le posizioni più estreme di alcuni suoi seguaci. Alla fine, la Madonna di Lutero è una figura paradossale: spogliata della sua regalità medievale ma ancora ammantata di una dignità unica; non più mediatrice di grazie ma ancora modello supremo di fede; non più regina del cielo ma sempre “Beata fra tutte le donne”.
Come scrisse nella sua ultima predica prima di morire: “Maria non cerca onori per sé, ma ci indica sempre suo Figlio”. Forse, in questa frase, si trova la chiave per comprendere il complesso rapporto del padre della Riforma con la Madre di Dio: un rapporto fatto di critica severa e di nascosta venerazione, di distacco teologico e di personale attaccamento.
In un’epoca in cui il dialogo ecumenico cerca punti di incontro tra cattolici e protestanti, la mariologia di Lutero offre spunti preziosi per riscoprire una devozione mariana fondata sulla Scrittura e centrata su Cristo, libera dagli eccessi che il riformatore condannava, ma non impoverita del tutto della sua dimensione affettiva e spirituale.
Davide Romano
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