Fallimenti relazionali e crisi di coppie

L’Istituto nazionale di Statistica (ISTAT), nel 2015 ha pubblicato una ricerca su matrimoni, separazioni e divorzi in Italia, dal 2008 al 2015. Tra i vari fenomeni rilevati dall’ISTAT c’è la crescita dell’instabilità dei matrimoni affermando che pur aumentando i matrimoni aumentano, non le separazioni ma l’instabilità relazionale. E’ un dato di fatto che le persone vivono le relazioni come un qualcosa di non statico, di fuggevole, di liquido, per affermare il principio del sociologo Bauman (2006). In una relazione, è naturale la ricerca della sicurezza, di cui in parte deriva da se stessi, dal proprio mondo interno e in parte dalla presenza dell’altro. I protagonisti dei fallimenti relazionali, delle coppie in crisi, delle famiglie in crisi sono le persone; è l’uomo. E ognuno è portatore di un valore all’interno della relazione. L’uomo di oggi ha perso, per estremo di narcisismo ideologico, di egocentrismo infantile, la visione base della sua esistenza; il senso della complementarietà/conferma. Un figlio lo è perché esiste un genitore, un marito lo è perché esiste una moglie. Un allievo lo è perché esiste un maestro; un amante esiste perché vi è l’amato e così via in una reciprocità di relazioni complementari dove ognuno dà conferma di esistere all’altro. Ciascun essere umano ha bisogno che gli venga riconosciuto un posto nel mondo, un senso, un valore da un’altra persona. La psicologia evolutiva ci ha indottrinato sull’importanza del genitore di riconoscere il fanciullo attraverso gli elementi della presenza accogliente di cure, premure e amore. In psicologia definiamo questi processi “carezze” (Berne, 1971). L’uomo, secondo la Bibbia, è un nodo di relazioni. E il Signore Dio disse: «Non è bene che l’uomo sia solo: voglio fargli un aiuto che gli corrisponda» (Gn 2,18). Su questa antropologia biblica non posso, come psicologo – psicoterapeuta e cristiano fare qualche considerazione clinica. Cosa possa significare un aiuto che gli corrisponda? Un principio di complementarietà dove ognuno contribuisce all’aiuto dell’altro. Visione non contemplata nella società attuale dove l’altro è l’escluso, l’assente, o addirittura la presenza ingombrante per i propri desideri e interessi. Non è difficile rintracciare nelle frasi dei molti pazienti: “dottore se il mio partner non fosse geloso; “se solo mi consentisse di”; “se stessi da solo”; “non mi lascia spazio” ecc….. . Senza scomodare la psicologica è evidente il lamento della presenza dell’altro. Non posso giudicare o colpevolizzare tale affermazione se riconosco, come in molta della psicologia, è mancata una apertura all’altro, vedendo solo il proprio Io (psicologia dell’Io). Generazioni di psicologi e psicoterapeuti si sono formati con la così detta “preghiera della Terapia Gestaltica” (F. Perls): “Io sono io. Tu sei tu. Io non sono al modo per soddisfare le tue aspettative. Tu non sei al mondo per soddisfare le mie aspettative. Io faccio la mia cosa. Tu fai la tua cosa. Se ci incontreremo sarà bellissimo; altrimenti non ci sarà stato niente da fare”. Sebbene nell’intenzione essa affermi l’assunzione al senso di responsabilità, senza una visione spirituale ne annulla il senso della presenza dell’altro, mirando ad accrescere solo se stessi, ma dimenticando il senso della complementarietà/conferma espressa, in primis, dalla visione Antropologica Biblica, ripresa da psichiatri esistenziali come Laing, Sullivan, Berne, Rogers, Allpor, Frankl che ne esaltano il valore della presenza dell’altro. Il problema dei molti fallimenti relazionali e crisi di coppie è perché l’altro non è visto e desiderato per come è ma per come vorremmo fosse per noi.

Pasquale Riccardi

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