
«Gli antichi latini consideravano i nascituri, senza alcuna esitazione, “homines qui in utero sunt“, e crearono una apposita figura, il “curator ventris“, per proteggere gli interessi di questi piccoli, inermi e innocenti soggetti di diritto.
I cosiddetti moderni definiscono i nascituri, i concepiti, cioè i nostri figli, nei più disparati dei modi: zigote, blastocisti, embrione, feto, prodotto del concepimento, ammasso di cellule, persino “rifiuto speciale”, al fine di negarne l’umanità, malgrado abbiano a disposizione mezzi tecnologici avanzatissimi, che attestano inequivocabilmente la loro natura di esseri umani.
Nell’antichità, i romani attribuivano al pater familias lo “ius vitae ac necis“, Il diritto di vita e di morte sul figlio, il che oggi è giudicato unanimemente un rozzo sopruso, un incivile primato e un intollerabile affronto al buon senso.
Per i cosiddetti moderni, la “scelta” della madre, di eliminare con eguale assoluta libertà il proprio figlio, è un diritto civile ed inalienabile, una conquista di civiltà, un intangibile diritto riproduttivo.
In definitiva, perché l’aborto, che uccide ogni anno nel mondo 70 milioni di esseri umani, viene considerato un nobile diritto da inserire addirittura nelle Costituzioni degli Stati ?
Perché, fin qui, abbiamo perso nettamente e clamorosamente la battaglia delle parole, la guerra semantica, il certamen del linguaggio.
Il libro di Enrico Pagano rappresenta una sommessa proposta per cercare di invertire la tendenza, e far riguadagnare alla realtà un po’ di spazio nel campo lessicale e, con essa, ridare dignità alla verità del linguaggio e della sottesa comunicazione.
Perché ricominceremo a parlare seriamente di tutela dell’umano, solo se useremo vocaboli che rispettano la realtà e sono conformi alla verità delle cose».
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