La ragione della nostra speranza

«Dio, infatti, non ci ha destinati a ira, ma ad ottenere salvezza per mezzo del nostro Signore Gesù Cristo» (I Tessalonicesi 5, 9)

Diversi inni cantati la domenica di Pasqua in tutte le chiese cristiane invocano o annunciano la salvezza. Fuori degli edifici di culto la musica e il significato delle parole cambiano. A chi usa il computer, il verbo “salvare” fa pensare immediatamente a uno dei più importanti comandi del sistema operativo che protegge dalla perdita dei dati su cui si sta lavorando. Computer a parte, la tendenza generale delle società occidentali è quella di cercare una salvezza laica, vale a dire, scissa da Dio. In questa prospettiva una determinata configurazione politica, di sinistra o di destra, assume tratti salvifici, anche se il più delle volte le promesse fatte durante le campagne elettorali restano parole vuote.

Non sorprende dunque il fatto che anche la salvezza laica si sposta in una dimensione segnata dall’individualismo. Nella versione accettabile di tale salvezza il benessere personale e della propria famiglia diventano valori assoluti, degni dei più grandi sacrifici. La visione più volgare dell’individualismo soteriologico punta invece sul divertimento e sull’accumulo dei beni materiali. Sarebbe tuttavia disonesto assumere atteggiamenti moralistici e bollare tutti questi tentativi come forme di miopia spirituale perché – in qualche modo – siamo anche noi credenti contagiati da questi virus.

Nei giorni scorsi ho riascoltato spesso l’album di Ivano Fossati del 2006 intitolato L’arcangelo. Una canzone continua a colpirmi profondamente. È intitolata «Ho sognato una strada» e contiene queste parole:

«Se i grandi ottusi/ della Terra/ ci trascinano a fondo/ Sarà che giorno dopo giorno/ Avrò sognato troppo a lungo/ Ah, se passasse questo buio/ Come si ammaina una bandiera/ Come si ammaina l’orgoglio/ Alla stessa maniera/ Potrei salvarmi, potrei salvarmi/ Anch’io/ Basterebbe una parola/ E basterebbe una parola/ In bocca all’angelo/ Di Dio/ Voglio salvarmi, voglio salvarmi /Voglio salvarmi, voglio salvarmi».

Ivano Fossati e il messaggio della Bibbia concordano sostanzialmente su un punto: un atto salvifico e un riferimento a Dio non possono essere scissi. La più comune critica, rivolta al cristianesimo dai suoi oppositori laici, è quella di accettare passivamente la realtà di sofferenza e di ingiustizia, rimandando la persona credente a cercare consolazione nella speranza di un premio celeste. Si può rispondere a simili obiezioni, elencando semplicemente le schiere dei cristiani e delle cristiane profondamente credenti che si sono impegnati – qui e ora – nella lotta per un modo migliore e hanno ottenuto risultati ragguardevoli. L’onestà intellettuale esige tuttavia una riflessione sulle motivazioni di tale impegno. È sicuramente possibile convenire su un punto: l’amore del prossimo crea una dimensione in cui si riconoscono tutte le persone oneste, a prescindere dalle posizioni politiche o religiose.

La predicazione e l’impegno evangelico prospettano però un’altra ragione della speranza: la risurrezione di Gesù Cristo dai morti. Questa è la più genuina confessione della fede cristiana (cfr. I Corinzi 15). La risurrezione di Gesù Cristo non è una promessa bensì un fatto compiuto, la cui forza trasforma già la realtà. Ma ecco qui che la differenza tra la fede e l’ideologia diventa immediatamente palese. L’ideologia chiede la perfetta visibilità delle prove. Gli argomenti portati a sostegno di un’asserzione devono essere valutabili empiricamente: la lunghezza media della vita che aumenta, il livello minimo salariale che è sempre in crescita, le azioni di guerra che cessano.

Allora, che cosa dobbiamo dire quando la lunghezza media della vita accresce, mentre la sua qualità spesso diventa intollerabile? Quale atteggiamento possiamo assumere davanti alla precarietà lavorativa teorizzata? In che modo vorremmo mettere in discussione una ragion di stato che giustifica azioni militari moralmente abominevoli? L’annuncio della risurrezione sembra concettualmente lontanissimo da questi argomenti. Malgrado ciò, un nesso c’è.

Tanti atti di militanza politica o sociale si affievoliscono perché la mancanza di risultati visibili, le preoccupazioni per la propria vita o per lo status sociale raggiunto, spingono anche i militanti e le militanti più resistenti verso una serie di compromessi, a volte oggettivamente sporchi, a volte accettabili. Talvolta tali fenomeni si manifestano anche tra coloro che militano all’interno delle nostre chiese.

Per mantenere vivo l’impegno ci vuole il coraggio della fede. È una fede che osa sfidare i potenti della terra perché crede fermamente nella potenza di Dio. È una fede che non teme la crudeltà degli aguzzini, né si lascia sedurre dalle sirene che promettono potere e denaro. È una fede su cui si fonda la certezza che la morte e il peccato sono stati definitivamente sconfitti. Vivere la fede in questo modo si chiama martirio, nel senso della parola greca che significa testimonianza. Il significato più profondo del martirio allude a una forza che non è legata alle capacità umane. Si tratta della forza della risurrezione che è la piena, definitiva rivelazione dell’amore di Dio (agàpe) per ogni singolo essere umano, per l’umanità tutta e per tutto il Creato.

https://riforma.it/2025/04/18/la-ragione-della-nostra-speranza/


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