
Kenniah Malinda Epps, 23 anni, aveva abortito il 14 maggio 2014, presso una struttura per aborti della Family Planning Associates (FPA) a Los Angeles, in California. Era incinta di 11 settimane.
Il giorno seguente, si è svegliata con un forte dolore addominale e un eccessivo sanguinamento vaginale. Intorno alle 14:00, secondo il racconto del coroner della contea di Los Angeles, è stata portata di corsa al Centinela Hospital Medical Center dove è stata sedata e le sono state somministrate le prime cure. I medici, però, vista la Tac e visto che c’era molto sangue anche nell’urina, l’hanno trasferita in un ospedale più attrezzato, il Kaiser West.
Qui è stata operata, ma dopo la revisione uterina è stato notato un pronunciato deterioramento del suo stato mentale ed è stata anche intubata. Durante l’ennesima Tac ha avuto un arresto cardiaco ed è stata dichiarata morta alle 2:47 del 16 maggio 2014.
L’autopsia ha rivelato che è morta per dissanguamento a causa di un’emorragia uterina, complicata da endometrite e miometrite, che sono rispettivamente l’infiammazione del rivestimento uterino e degli strati muscolari dell’utero.
A distanza di 7 anni ci dovremmo chiedere perché nessuno ha denunciato la morte di Kenniah, nessuna manifestazione femminista di cordoglio, nessuna veglia è stata tenuta per questa mamma di 23 anni.
Tra l’altro in Usa le autopsie sono fatte solo se parte un procedimento penale e sono a pagamento. Quindi vuol dire che la famiglia della defunta appartiene ad un ceto sociale abbastanza elavato, che ha la cultura e il denaro necessari per non accontentarsi di piangere la disgrazia in privato. E anche delle morti per aborto accertate con autopsia abbiamo contezza solo se vengono in qualche modo conosciute dai media (prolife): il CDC, per legge ormai non tiene più il conto.
Tutto questo significa che il “femminicidio” conta e va denunciato solo in alcuni casi. L’aborto legale può continuare ad uccidere le donne impunemente.
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