Una situazione non voluta da Dio ma è in larga parte il prodotto della nostra società non di rado ammantata di perbenismo.
Nel recente periodo della tormentata vita politica italiana abbiamo spesso assistito a vuote e poco edificanti parole offensive rivolte da esponenti di partiti ai propri avversari. L’apice di questo panorama alquanto deprimente ritengo che sia stato raggiunto nel corso di un dibattito televisivo del 20 febbraio scorso allorché da parte di un partecipante fu detto testualmente che neanche Gesù Cristo avrebbe risolto i complicati intrecci dell’attuale crisi economica. Confesso come credente il mio immediato moto di rigetto verso tale espressione accompagnato da un pensiero che è corso innanzitutto al comandamento di «non pronunciare il nome del Signore invano». Aggiungo anche un sentimento di perdono perché non sanno quello che dicono quando interviene l’incoscienza dei limiti del parlare. Si discuteva comunque in quel dibattito sullo scandalo, per alcuni, del divario economico esistente nella popolazione e della quasi ineluttabilità di esso, per altri.
Ricchezza e povertà sono sempre esistite da quando conosciamo la storia: sono due realtà di fatto. Nella riflessione cristiana la ricchezza in sé non conduce alla condanna né è un male. Non in tutti i casi è attribuibile a un comportamento disonesto (come spesso siamo indotti a pensare) né si pensa che il possedere beni sia il frutto di appropriazioni indebite come denunciava una ben nota ideologia per la quale «la proprietà è un furto». La Scrittura abbina spesso benedizione divina e prosperità; i beni sono un dono di Dio ma, questo è il punto, non ne siamo (per Dio) insindacabili amministratori ma i responsabili del loro uso, in primo luogo in favore degli altri e non per il mero accumulo di denaro. Così la pensava Gesù definendo, nell’omonima parabola, «stolto» il ricco che meditava solo di godere dei beni ammassati (Lc 12, 20-21).
La povertà in sé non conduce anche essa alla salvezza ma sappiamo che «… il Vangelo è annunciato ai poveri» (Mt 11, 5). Essa è una situazione non voluta da Dio ma è in larga parte il prodotto di una società (la nostra) nella quale sia a livello di istituzione sia di singole persone, non di rado ammantate di perbenismo, bastano poche firme per trasferire ingenti capitali e lavoro da una parte all’altra del pianeta causando la povertà di molti. Alla nostra comprensione dell’Evangelo, forse come semplici credenti sprovveduti di fronte alle complesse dinamiche economico-finanziarie, penso competa il dovere, anche nelle poche e piccole azioni che il nostro vivere ci consente, di ridurre il divario tra ricchezza e povertà con quel senso di responsabilità che non può essere confinato nella dichiarata etica protestante ma che dovrebbe essere diffuso in tutto il Paese.
Ricchezza e povertà saranno anch’esse abolite all’avvento dei nuovi cieli e della nuova terra (Ap 21, 1). Ora possiamo seminare segni del Regno di Dio che ai suoi occhi siano graditi. I problemi delle disparità sociali penso che non possano essere affidati a improbabili miracoli economici né a elementi di forza per strategie di lotta, bensì a una solidale amministrazione delle risorse. «Certamente il povero non sarà dimenticato» (Sal 9, 18).
Emilio Bracco
Fonte: http://www.riforma.it/
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