La vicenda di Emanuela Orlandi, la ragazza di quindici anni sparita a Roma il 22 giugno 1983, ha spalancato le porte a innumerevoli ipotesi che hanno chiamato in causa terroristi stranieri, criminali incalliti e prelati pedofili.
Una serie di piste, rivelatesi tutte prive di riscontri, che hanno impedito agli inquirenti di seguire e approfondire la pista di un delitto sessuale maturato in ambienti familiari e amicali della giovane.
Dopo due inchieste archiviate, nel 1997 e nel 2015, la Procura Vaticana e la Procura di Roma hanno deciso di riaprire una terza inchiesta, il 9 gennaio 2023, per cercare di risolvere il mistero della giovane studentessa svanita nel cuore della capitale.
Un colpo di scena è avvenuto il 10 luglio 2023 quando dalla Procura di Roma è trapelato un documento che ha chiamato in causa lo zio di Emanuela, Mario Meneguzzi, come potenziale colpevole della sparizione della nipote. Mario Meneguzzi era marito di Lucia Orlandi, sorella di Ercole Orlandi, papà di Emanuela. Lavorava alla Camera dei Deputati come direttore del bar del Parlamento, aveva importanti agganci politici e aveva contatti con il Sisde, l’allora servizio segreto italiano.
Il nome di Mario Meneguzzi era già saltato fuori a metà di agosto del 1983 quando, secondo il giornalista Tommaso Nelli, un anonimo aveva inviato una lettera, battuta a macchina, al procuratore della Repubblica, Domenico Sica, accusando Mario Meneguzzi di essere responsabile della scomparsa di Emanuela Orlandi e di aver molestato anche la sorella maggiore, Natalina Orlandi, all’epoca una ragazza di ventuno anni.
Convocati dai carabinieri il 30 agosto, Natalina e il suo fidanzato Andrea Ferraris, attualmente suo marito, avevano confermato le molestie dell’uomo, facendole mettere anche a verbale. Quella confessione dovette essere così rilevante da convincere i militari dell’Arma a prelevare Natalina Orlandi e ad accompagnarla davanti al magistrato Domenico Sica, per farsi raccontare cosa fosse successo tra lei e lo zio.
Dopo l’interrogatorio, la Procura di Roma inviò una informativa alla Segretaria di Stato Vaticano per verificare l’attendibilità della rivelazione di Natalina Orlandi.
La risposta giunta dalla Santa Sede non si era fatta attendere e, in un documento datato 8 settembre 1983, confermava le morbose attenzioni che lo zio Mario Meneguzzi aveva rivolto verso la nipote Natalina nel 1978, minacciando anche di farla licenziare dalla Camera dei Deputati, dove la ragazza lavorava come segretaria di un ufficio legale anche grazie all’interessamento dello zio, se avesse parlato della cosa in giro.
Da quel momento in poi, gli inquirenti cominciarono a sospettare che Mario Meneguzzi potesse essere coinvolto anche nella scomparsa della nipote Emanuela, seguendo un ragionamento alquanto logico: se lo zio ci ha provato con la nipote più grande, cosa vieta di pensare che ci abbia provato anche con quella più piccole e che il tentativo sia finito tragicamente?
Domenico Sica, che stava indagando sulla scomparsa di Emanuela Orlandi dopo aver preso il posto di Margherita Gerunda che fin dall’inizio sospettava un delitto a sfondo sessuale maturato in ambito familiare e amicale, fece anche anche pedinare Mario Meneguzzi, ma l’uomo, evidentemente mosso da un atteggiamento cauto e sospettoso, tipico di chi sa di aver commesso un guaio, si accorse di essere seguito e il pedinamento andò in fumo.
Domenico Sica non farà altre indagini su Meneguzzi, disinteressandosi anche della pista di un fantomatico rapimento politico messo in atto per scambiare Emanuela Orlandi con Ali Agca, il terrorista turco che aveva sparato a papa Giovanni Paolo II il 13 maggio 1981, lasciando la patata bollente al pm Ilario Martella, perché convinto che la scomparsa di Emanuela Orlandi fosse una storia tra lo zio e la nipote. Una storia che non poteva più essere dimostrata dopo il fallito pedinamento e una perquisizione andata a vuoto.
La famiglia Meneguzzi ha sempre respinto qualsiasi ipotesi che il loro congiunto potesse essere coinvolto nel dramma di Emanuela, affermando che l’uomo si gettò a capofitto nel caso, prendendo la situazione in mano. L’uomo, infatti, su delega del padre di Emanuela, scosso emotivamente dalla scomparsa della figlia, fece da mediatore tra la famiglia Orlandi e il mondo esterno, ma il suo intervento determinò gravi riflessi sulle indagini da parte degli investigatori. Fu lui a fare pubblicare il numero di telefono di casa Orlandi sui giornali e sui manifesti senza consultarsi prima con gli inquirenti e spalancando le porte a mitomani e sciacalli. Fu lui a rispondere alle telefonate dei sedicenti rapitori senza informare i magistrati del contenuto delle telefonate. Fu sempre lui a far stampare, attraverso una tipografia di sua proprietà, i manifesti di Emanuela, divulgando il numero di telefono di casa Orlandi in modo indiscriminato e all’insaputa degli investigatori.
Il ruolo di mediatore di Mario Meneguzzi finì il 22 luglio 1983, lo stesso giorno in cui, secondo la giornalista Rossella Pera, l’uomo fu sottoposto ad accertamenti riservati da parte del Sisde, lasciando il posto all’avvocato Gennaro Egidio, anch’egli legato al Sisde. Fu lo stesso Meneguzzi a dirlo durante una concitata conferenza stampa. Lo disse al TG1 e invito i rapitori a rivolgersi a lui per tutte le questioni connesse con il caso Orlandi oppure attraverso la linea riservata aperta con il Vaticano. Ercole Orlandi dichiarerà che questo avvocato è stato presentato loro da Gianfranco Gramendola, un agente Sisde con nome in codice “Leone” e che non avrebbero dovuto pagare nulla per i suoi servizi, poiché ci avrebbe pensato lo stesso Sisde. In realtà, durante una dichiarazione rilasciata al Corriere della Sera, il 28 luglio 1983, Mario Meneguzzi disse di essere stato lui ad aver suggerito l’avvocato Gennaro Egidio perché lo riteneva più adatto a trattare “questo genere di cose”. Di quali genere di cose parlasse non si sa. Si sa solo che qualche anno prima Egidio si era occupato anche del delitto del banchiere Roberto Calvi e della baronessa Jeannette Bishop.
La famiglia Orlandi ha sempre difeso Mario Meneguzzi, affermando che l’uomo il giorno della scomparsa di Emanuela Orlandi era in vacanza a Torano, un posto “lontanissimo”. In realtà non ci sono prove che Mario Meneguzzi quel giorno si trovasse davvero a Torano. Inoltre, Torano non è “lontanissima”. Dista cento chilometri da Roma. Un’ora di viaggio. Se si considera che Ercole Orlandi disse di aver telefonato al cognato verso mezzanotte per chiedere anche il suo aiuto, cinque ore dopo la scomparsa di Emanuela, Mario Meneguzzi, in linea teorica, avrebbe avuto tutto il tempo di andare a Roma e tornare a Torano anche due volte, senza che nessuno se ne accorgesse e creandosi pure un alibi. Un alibi che traballa davanti alla testimonianza di un vigile urbano, Alfredo Sambuco, che nel 1985 riferì ai magistrati di aver visto il pomeriggio del 22 giugno 1983, intorno alle cinque, un uomo davanti al Senato parlare con una ragazza simile a Emanuela. L’identikit dell’uomo tracciato dal vigile aveva una sorprendente somiglianza proprio con quella di Mario Meneguzzi. A questo va aggiunto anche il comportamento invadente dell’uomo che si recava spesso in Procura per sapere cosa stessero appurando gli inquirenti, come se avesse voluto tutelare sé stesso o nascondere qualche situazione compromettente e parecchio scandalosa che coinvolgeva anche altri soggetti, cosa che insospettì moltissimo Margherita Gerunda che lo tenne lontano dalle indagini.
Pietro Orlandi ha sempre chiesto che gli inquirenti indagassero a trecentosessanta gradi sulla scomparsa di sua sorella, ma non ha mai voluto che gli investigatori ficcassero il naso nel suo ambiente familiare, definendo il documento della Procura di Roma un depistaggio. Cosa strana visto che le statistiche dicono che nella maggior parte della violenza su una donna o su una ragazza il colpevole è quasi sempre un conoscente. Una violenza che purtroppo coinvolse anche Emanuela Orlandi che molto probabilmente morì la sera stessa della sua scomparsa dopo un incontro avvenuto con “un adulto molto vicino alla ragazza”, come disse Domenico Sica. Non si sa se Sica alludesse proprio allo zio Mario Meneguzzi o meno. E con questo non si vuole accusare l’uomo di essere stato colpevole o di essersi sentito responsabile della sorte della ragazza. Si vuole solo evidenziare come la pista familiare doveva più approfondita a quel tempo per risolvere il caso Orlandi, perché come dice anche il Vangelo i nemici dell’uomo spesso sono quelli della sua stessa casa.
Mario Barbato
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