«Amico, sali più in sù…»

tempesta1“…Io te ne trarrò fuori e tu mi glorificherai” (Salmo 50:15)

Questa testimonianza ha inizio nella cit­tà sudafricana di Durban, città nella quale, nell’estate del 1963, il Signore volle che fa­cessi la mia prima vera esperienza spirituale.

Ero andato in una delle cinque chiese pentecostali delle quali ero riuscito ad ave­re l’indirizzo dai fratelli di Città del Capo ed il culto era stato meraviglioso.

Tornai sulla nave con il cuore colmo di gratitudine verso il mio Dio che mi permet­teva di essere tanto felice, mentre i miei col­leghi dovevano disperatamente, porto dopo porto, cercare nelle cose più misere che il mondo possa offrire, un motivo qualsiasi per dimenticare i familiari lasciati, gli amici lontani, le cose care al ricordo abbandonate da mesi, in qualche caso addirittura da anni.

Salutai un marinaio di guardia e gli altri Ufficiali, sbalorditi come sempre nel vedere che in ogni porto immediatamente trovavo amici che mi riaccompagnavano a bordo e venivano poi a riprendermi non appena ero libero. Entrato nella mia cabina, mentre ero ancora esultante per l’accoglienza riserbata­mi dai fratelli, accade nello spirito un terri­bile turbamento: improvvisamente mi sen­tii solo, solo come mai ero stato; la mente era sola, ogni mio pensiero sentivo che ap­parteneva esclusivamente a me e che nes­sun altro al mondo poteva darmi un qualsiasi aiuto per liberarmi da quella ridda di improvvisi, angosciosi dubbi, che avevano occupato ogni parte della mia mente e del cuore. Tentai di rifugiarmi nei ricordi di tanti momenti felici davanti al Signore; ma la mente rifiutava quello sfuggire di fronte all’affermazione che ogni mio precedente momento spirituale, ogni precedente espe­rienza cristiana, fossero dovute unicamente ad una forma mentale acquisita in venti anni di permanenza in una chiesa. Ero spaven­tato come mai mi era capitato. comprendevo che quello era il momento della decisione che già credevo di aver preso tanti anni pri­ma; eppure ancora tentavo di sfuggire per­ché avevo paura di non riuscire a vincere quel terribile pensiero che seguitava a ripe­tere: « Ti inganni, sai che nulla è vero e che sei solo, eppure vuoi seguitare ad ingannarti perché sei un vile e non hai il coraggio di lasciare tutti i ragionamenti riguardanti la religione e cercarti una tua nuova ‘ragione di vita nel mondo.

Caddi in un pensiero puerile: volevo tele­fonare da laggiù al mio pastore, per chieder­gli aiuto; un attimo dopo avevo già pensato che sarebbe stato meglio telefonare a mio padre per dirgli quello che mi stava capi­tando. Conoscevo le risposte: avrei sentito versi della Bibbia e l’esortazione a pregare; ma la Bibbia in quell’istante era per me l’e­quivalente dei Rotoli della Legge nelle mani dei soldati di Tito, che erano nel Tempio per distruggerlo nel modo più totale.

Prima di partire per il Sud Africa, un caro fratello di Genova mi aveva regalato il suo Nuovo Testamento. Aveva compreso che il mio spirito era turbato e sulla prima pagina bianca aveva scritto: « Invocami nel giorno della distretta, Io te ne trarrò fuori e tu mi glorificherai ».

Chiusi a chiave la porta della cabina e mi inginocchiai dicendo al Signore: «Tu sai che in questo momento è come fossi dinanzi ad un muro, come se mi aspettassi che un quadro rispondesse ai miei gridi; ma affermi che mi trarrai fuori dalla distretta e sai che non potrebbe esistere mai più per me un giorno di distretta come questo, perché se Ti perdo ora Ti avrò perso per sempre. lo Ti invoco e Ti invoco solo perché ho pau­ra di dire sì a quello che la mente afferma ». Non avevo mai pianto davanti al Signore e sapevo che quella volta piangevo solo per paura: ero umiliato davanti ai ragionamenti che mi imponevano di alzarmi e di porre fine ad ogni pensiero sullo Spirito, mi sentivo un codardo che non aveva il coraggio di dire definitivamente basta ad un passato vissuto fra i banchi di una chiesa.

« Io te ne trarrò fuori…» il pianto im­provvisamente cambiò e la mente si sgom­brò quasi istintivamente: fu una sensazione che potrei definire fisica. Sentii proprio che nel cuore scendeva qualcosa di bello. Pian­gevo, piangevo sempre di più mentre il Co­mandante fuori della cabina voleva sapere cosa mi fosse successo ed io non riuscivo a rispondere. Comprendevo finalmente che i fratelli che dicevano di aver sentito che qualcosa di nuovo era entrato in loro, non erano esaltati, sentivo che le sorelle che par­lavano della mano del Signore, non esagera­vano nei termini, sentivo che Chi aveva detto Che gli Angeli in cielo fanno festa per un peccatore ravveduto, non aveva usato una forma metaforica per abbellire un’idea: gli Angeli cantavano veramente in quel momen­to e la mia preghiera stava salendo verso il trono di Grazia, veniva presa dall’Angelo del Signore e posta nel turibolo dove sono le preghiere dei santi e lasciata oscillare con quel turibolo davanti al Signore, in profumo di odore soave al trono dell’Agnello.

Mi ero umiliato totalmente davanti alla mente e avevo dimostrato a me stesso che non ero capace di prendere una decisione quando era troppo grande per la mia me­schinità, ed ora? in pochi momenti il Signore aveva risposto, l’unica volta che il cuore si era completamente spezzato davanti a Lui.

Qualche giorno dopo salpammo per il rien­tro in Italia. Dissi immediatamente al Co­mandante che giunti a Genova sarei sbarcato, Sapeva che ero evangelico ma quando gli dissi che sarei entrato in una Scuola Biblica tentò in ogni modo di sconsigliarmi affer­mando che avrei avuto una brillante carriera rimanendo ai suoi ordini. Davanti ai miei occhi erano però ormai i banchi della Chiesa Eterna del mio Signore e c’era una carriera meravigliosa da percorrere là: Amico, sali più in sù; ed un altro passo verso il Regno del Signore. «Amico, sali più in sù …», ed un altro passo nel crescere di fede in fede.

Ringraziai quel cortese Comandante, che aveva voluto conoscere uno per uno i fra­telli che il giorno della partenza cantavano sotto la nave: « Se non ci vedremo più quag­giù, sull’altra riva, dall’altro lato del fiume che stai attraversando, ci rincontreremo per non lasciarci mai », e sbarcai per tornare nella mia chiesa.

Sei mesi di Scuola Biblica, tre altri mesi di benedizioni nelle piazze e nelle via di alcune città italiane, poi ancora il mare, que­sta volta su navi militari, dopo aver pregato per lunghissime ore il Signore che non si potesse più dire di me quello del quale ora ormai certo mi si potesse accusare prima: che avevo le forme della pietà ma ne avevo rifiutata la potenza.

L’inverno 1965-66 è stato terribile sul ma­re: decine di navi sono affondate e, nella maggioranza dei casi, gli uomini dell’equi­paggio sono scomparsi senza lasciare sui re­litti, qualche volta ritrovati, nessuna traccia di quella che era stata la loro vita.

Spettò alla mia nave, una prima volta, di uscire a ricercare un bastimento, un uomo del quale era stato trovato, ormai senza vita, legato sul fondo di una lancia di salvataggio, il mare era in tempesta quando uscimmo dal porto di Napoli: i nostri marinai trema­vano dal freddo per le onde ghiacciate che ci investivano e che rendevano inutile la di­fesa dei nostri pesanti giubbotti da naviga­zione.

Dopo circa dodici ore avvistammo qual­cosa che emergeva a tratti dai fluiti. Era la nave Capovento, di poco più grande della nostra, che si era capovolta e mostrava solo la parte inferiore. Il Comandate decise di tentare di mandare una imbarcazione per provare a battere con un martello sul relitto in modo da sentire una eventuale risposta da qualche uomo che fosse rimasto imprigionato nelle stive.

Chiese dei volontari: gli Ufficiali erano sicuramente coraggiosi, ma i più anziani ave­vano dei figli a casa ed i più giovani erano inesperti di manovre di imbarcazioni. Una testimonianza era stata data a bordo e con l’animo sereno di chi sa che «…sotto di noi sono le Sue braccia eterne » chiesi al Comandante di potere andare io, non occorre descrivere quello che successe in mare: una volta tornato sulla nave un Ufficiale mi dis­se che il Comandante in 2.a aveva scongiu­rato il Comandante di darmi ordine di rien­trare. Nello scafo della « Capovento » non c’era nessuna forma di vita.

Sulla mia nave i marinai furono per la prima volta convinti che quando parlavo del Signore e dicevo che Egli cambia la mente ed il cuore, dicevo qualcosa nella quale cre­devo profondamente.

Un’altra nave affondò un mese dopo ed ancora una volta il Signore fu la mia roc­cia sicura nel mare in tempesta e mi diede grazia di riuscire a portare, con la motobarca sfondata su un fianco e il timone sal­tato via, alcuni coraggiosi marinai in aiuto dell’equipaggio della nave in pericolo, equipaggio che poi salvammo completamente.

A Napoli ormai sapevano in molti, nell’ambiente della Marina, che sulla nave di­partimentale c’era un Ufficiale evangelico che scendeva sempre in mare ed era con­vinto che il Signore Io avrebbe aiutato in qualsiasi circostanza. Ebbi così modo di co­noscere un marinaio di genitori pentecostali ma freddo nella fede. Veniva nella mia ca­bina e mi parlava sempre di cose stranis­sime chiedendone poi il significato. Pregai tanto perché il Signore mi desse un frutto: mi sembrava impossibile però che quel ma­rinai cambiasse. Cantavo e gli insegnavo i nostri cantici: voleva sempre che seguitassi ma la sua intelligenza spirituale non cam­biava mai.

Nel frattempo anche un sottufficiale del­la nave aveva cominciato a farmi domande: un giovane che dipendeva direttamente da me e verso il quale, per questa ragione, ve­nivo a trovarmi a disagio.

Un giorno partimmo, diretti a Livorno, per andare a scortare alcune imbarcazioni da regata che dovevano traversare il Tirreno.

Da Livorno potemmo partire solo dopo una settimana perché il mare, tempestosis­simo, non permetteva assolutamente di ten­tare di uscire.

Sulle imbarcazioni della regata erano im­barcati i migliori equipaggi della Marina Mi­litare: quattro Ufficiali ed un marinaio per ogni imbarcazione. Su tutti faceva spicca l’equipaggio della Accademia Navale, con uo­mini che, in barca a vela avevano traversato gli Oceani ed avevano riempito di ammira­zione tutto il mondo velico.

Erano impazienti di uscire, ripetevano sempre che erano uomini di mare e che vole­vano andare anche con il mare in tempesta. Il Ministero dette il permesso di partire e le quattro candide imbarcazioni presero la loro corsa sulle onde. La nostra nave saltava sul mare in burrasca e le vedette tentavano di­speratamente di non perdere di vista le vele che, di notte e con quel mare, si perdevano nella spuma che accecava gli occhi.

All’improvviso, verso la mezzanotte, uno delle quattro vedette, avvisò che non vedeva più una imbarcazione.

Il Comandante manovrò immediatamente per portarsi sul punto dell’ultimo avvista­mento e fece chiamare tutti gli uomini ai posti di emergenza.

Uscii dalla cabina col cuore in gola: sulle imbarcazioni c’erano giovani con i quali ave­vo studiato e con i quali avevo mille cose belle in comune. Salii di corsa in plancia e controllai che i miei marinai fossero ai loro posti, poi mi sembrò di vedere due uomini fra le onde, alla luce di un proiettore; volsi un attimo il mio pensiero al Signore che poteva ordinare ai venti ed alle onde di acquetarsi, e mi tuffai in mare. E anche qui inutile descrivere quanto gelida fosse l’acqua e quanto difficile nuotare fra le onde con gli stivaletti, ed i pesantissimi indumenti di navigazione: il Signore che a Durban mi aveva salvato dal naufragio spirituale, non poteva permettere che annegassi in onde tanto meno pericolose per la mia anima. Uno dei due Ufficiali fu salvato; appena lo toc­cai svenne. Era stato in acqua solo dieci minuti ed era un campione di nuoto dell’Ac­cademia Navale. L’acqua gelida e le onde che impedivano di respirare avevano già avuto ragione dello splendido vigore giova­nile degli altri quattro occupanti l’imbarca­zione.

Quando trassero a bordo il naufrago, me ed un marinaio che era saltato in mare per aiutarmi, nessuno di noi era capace di te­nersi in piedi perché mezzi congelati, ma ricordo la mia meraviglia nel vedere Che le gambe mi tradivano: dentro, nella parte più bella del cuore, avevo lo stessa calore di Durban e quando, steso nella cabina, vidi i marinai del mio reparto tutti intorno al let­tino e la mia Bibbia ancora aperta, inca­strata in modo strano sul tavolino per non farla cadere, oh! torrenti di benedizioni scen­devano dentro di me; e quegli uomini, gio­vani, giovani ed anziani, che ora guardavano a quel Libro che a Durban stava per essere chiusa per sempre e sentivano che quando, nei pochi momenti liberi, parlavo di quello che il Signore dà, dicevo una cosa nella quale credevo; quegli uomini, ripeto, ave­vano gli occhi lucidi ed io mi sentivo istante per istante più misero e più indegno di quel meraviglioso canto del mio cuore che gioiva perché un uomo era stato strappato alla morte e perché un cristiano aveva avuto fe­de nel suo Signore.

Tornammo a Napoli due mesi dopo; il marinaio al quale parlavo della fede era stato congedato. Dovevo rivederlo solo sei mesi più tardi nella chiesa di Siracusa, sal­vato e battezzato di Spirito Santo. Anche il mio Sottufficiale radiotelegrafista era sbar­cato; qualche mese più tardi seppi che fre­quentava una delle nostre chiese vicine a Napoli.

C’è bisogno di una conclusione in questa testimonianza? Sono ancora molto giovane e sono sicuro che il Signore sarà sempre vicino: un anno forse, altri cinquanta po­trebbero essere. Mi disse di cercare prima il Regno dei Cieli ed io lasciai il mare per entrare nella Scuola Biblica; e che tutte le cose mi sarebbero state sopraggiunte. Infatti, non vedo umanamente cosa potrei deside­rare di più.

Lo Spirito vuole sempre di più ed è di questo che sono felice, perché vuol dire che anche l’ultima parte del versetto di Durban si sta adempiendo: « … e tu mi glorificherai ».

PAOLO PAGANO

Tratto da “Risveglio Pentecostale” Luglio – 1967.

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