Minacciate, picchiate, stuprate, e spesso poi abbandonate dalla loro stessa comunità. Nell’eterno stato di guerra che affligge il Congo e in generale tutta la regione dei Grandi Laghi, è sempre la popolazione civile, in particolare le donne e le bambine, a subire il destino peggiore. Stritolate in egual modo tra gli abusi dell’esercito regolare e quelli perpetuati dalle miriadi di gruppi paramilitari in perenne lotta per il potere, la loro situazione non accenna a migliorare nonostante la missione delle Nazioni Unite e le denunce delle ong locali e internazionali. Denunce di cui poco, in realtà, passa nei media occidentali, come spesso accade per quanto riguarda le notizie dall’Africa.
Perchè ancora oggi nulla è cambiato da quando, nel 2010, la rappresentante speciale dell’ONU Margot Wallström aveva definito il Congo “la capitale mondiale dello stupro”, così come uno studio del 2011 sull’American Journal of Public Health aveva stimato che nel paese 48 donne vengono violentate ogni ora. Basti pensare che a fine novembre dell’anno scorso, secondo la testimonianza della rete di sostegno alle donne guidata dalla congolese Jeanette Bindu, solo nella città di Minova, provincia del Kivu Sud, sono state stuprate più di cento donne in appena 4 giorni. È successo quando le truppe governative (FARDC) avevano abbandonato la capitale provinciale di Goma, a fronte di un avanzamento da parte dei ribelli dell’M23. Mentre è di pochi giorni fa l’orrenda strage di Kivu Nord, in cui 21 persone, tra cui diverse donne e bambini, sono state prima violentate, mutilate e infine decapitate. La missione Onu, che ha dato la notizia, non ha fornito però notizie precise sui responsabili.
I racconti delle sopravvissute a queste incursioni sono in genere agghiaccianti: come quello di Mulindo, riportato dalla giornalista del Time Jessica Hatcher. Dal suo letto d’ospedale, la giovane congolese racconta del giorno in cui lei e i suoi genitori si erano rifiutati di aprire la porta ai soldati i quali, dopo aver iniziato a sparare in aria e alle finestre, hanno fatto irruzione in sette e hanno legato suo padre per i polsi. Dopodiché, lei e sua madre sono state violentate a turno dai soldati, costringendo il padre in lacrime ad assistere. Vent’anni, è stata la prima esperienza di Mulindo con il sesso.
“Se utilizzata in modo sistematico, la violenza sessuale si trasforma in un’arma di guerra – spiega in un’intervista al Women News Network la giornalista congolese Caddy Adzuba Furaha – Quando i ribelli hanno intenzione di saccheggiare un villaggio, usano come strategia lo stupro di tutte le donne e le ragazze, con l’obiettivo di spezzare la comunità distruggendo i corpi femminili. In questo modo, riescono a separare i loro membri, in modo che diventino più deboli e incapaci di difendersi dalla situazione in cui sono”. Inutile dire che le conseguenze, per le vittime che sopravvivono, sono devastanti: oltre al trauma psicologico, infatti, il 66% delle donne che hanno subito queste violenze sono gravemente malate di HIV e altre malattie trasmesse sessualmente. Senza contare i figli nati dagli stupri, altro grande problema: quando decidono di tenerli con sé, spesso le madri vengono abbandonate dalle famiglie e stigmatizzate dalla comunità, mentre il destino di questi piccoli senza colpa resta incerto. “Gli altri miei figli non vogliono il bambino il cui ‘padre’ ha ucciso il loro padre” racconta un’altra donna su World Pulse, che si pone anche il problema del futuro di un paese in cui intere generazioni di bambini continuano a crescere in un clima di tale violenza, dove ogni valore resta schiacciato dalle logiche di guerra e di potere.
La Repubblica Democratica del Congo, e Kivu in particolare, sono infatti segnate da decenni di instabilità cronica, soprattutto dopo il genocidio del 1994 in Ruanda. Tuttavia, dalla metà del 2012, vi è stato una forte deterioramento della sicurezza per i civili, a causa di una maggiore operatività da parte di gruppi armati sempre più numerosi e le ostilità tra questi gruppi e l’esercito nazionale. Il tutto, alimentato a vari livelli dalla lotta per il potere politico, scontri e odi etnici, e soprattutto dal desiderio di guadagno economico, compreso l’accesso alle risorse minerarie. “Gli attori in questa guerra non sono solo africani – denuncia ancora la giornalista Caddy Adzuba Furaha –. Le multinazionali svolgono un ruolo importante e agiscono nell’ombra. Tutti vogliono avere la loro quota di ricchezza illegale, e dietro questo conflitto ci sono paesi come gli Stati Uniti, Francia, Belgio, Inghilterra. Questi anni di tentativi di mettere pace tra i paesi dei Grandi Laghi sono stati fatti per niente. Eppure sappiamo che senza l’impegno dei paesi occidentali non possiamo risolvere questo conflitto”. Nelle ultime settimane, dopo che la situazione stava per precipitare nuovamente in un conflitto generalizzato, i gruppi armati M23 sono stati sconfitti e dispersi grazie all’intervento massiccio dell’esercito congolese: questa svolta, non si sa quanto duratura, sembra tuttavia essere stata determinata da un accordo di cui non si conoscono i particolari tra le potenze regionali e internazionali.
Per le persone comuni invece un filo di speranza arriva dal lavoro della società civile e delle associazioni, che stanno aiutando sempre più donne che hanno subito violenza a parlare e denunciare, anche i tribunali stanno cominciando a processare e condannare alcuni dei soldati colpevoli di stupro e crimini di guerra. Ma la strada è ancora lunga, e un rapporto di Amnesty International uscito pochi giorni fa ha denunciato la difficoltà sempre maggiore per i difensori dei diritti umani e femminili, che si trovano a essere anche loro bersagli privilegiati di tutte le parti in conflitto. “Le donne che difendono i diritti umani sono particolarmente a rischio: sono infatti viste come coloro che sfidano le norme sociali che scoraggiano le donne dal criticare pubblicamente chi è al potere. Ci sono stati diversi casi di donne che, come conseguenza di aver aiutato le vittime di abusi, compresa la violenza sessuale, sono state molestate o aggredite sessualmente esse stesse” spiega Sarah Jackson, vice direttore regionale di Amnesty International.
“I corpi delle donne vengono trasformati in un campo di battaglia – precisa Adzuba Furaha – è per questo che noi definiamo ciò che sta succedendo femminicidio: siamo di fronte a un genocidio delle donne”.
Anna Toro
Fonte: http://www.unimondo.org/
Sostieni la redazione di Notizie Cristiane con una donazione, clicca qui