Corea del Nord. Il paradiso più crudele del mondo

nord-corea-campagna-ansa-apLa dénonciation: sette racconti di tragica vita quotidiana in Corea del Nord. Il capolavoro di uno scrittore nordcoreano dissidente che si nasconde ancora nel suo paese.

«Vivo in Corea del Nord da cinquant’anni/ Come un automa parlante/ Come un uomo attaccato a un giogo/ Ho scritto queste storie/ Mosso non dal talento/ Ma dall’indignazione/ E non mi sono servito di piuma e inchiostro/ Ma delle mie ossa e delle mie lacrime di sangue/ [Le storie] sono aride come il deserto/ Dure come una terra selvaggia/ Misere come un malato/ Sgraziate come un rozzo utensile di pietra/ Ma, caro lettore/ Ti prego, leggile!» (Bandi, La Dénonciation)

Che cos’è in fondo la Corea del Nord? È come quel villaggio impenetrabile, circondato da dieci filari di recinti, dove abita un vecchio mago con le sue migliaia di servitori. Tutte le persone che si avvicinano, da fuori, possono solo sentire grandi scoppi di risa e, non potendo guardare all’interno, pensano che gli abitanti del villaggio siano molto felici. Non sanno, i passanti, che l’ilarità è dovuta a un sortilegio gettato su di loro dal mago e che in realtà i servitori subiscono ogni tipo di supplizi. Questi non fanno che piangere, ma non appena le lacrime sgorgano dai loro occhi, si trasformano in risate sguaiate.

«Può esistere una magia più crudele di questa e un villaggio più spaventoso?». La piccola Yeong-sun non può rispondere alla nonna, la signora Oh, che racconta la favola per farla addormentare. La piccola si è già assopita e non sa di essere una di quei servitori, non è in grado di dare un nome a quel mago, che per lei vive solo nella fantasia e che invece è più reale di quanto pensi.

E chi sono in fondo i nordcoreani? Sono degli attori, che fin dalla nascita hanno imparato a recitare in quella grande tragedia che è la loro vita e su quell’enorme palcoscenico che è la loro patria. Come la madre di Kim Suk-i, 45 anni, che come tutti si precipita ai piedi dell’altare edificato in onore del defunto Kim Il-sung. Piange e recita inginocchiata: «Noi venereremo il nostro Grande Leader fino a quando il sole e la luna non spariranno».

Le sue lacrime sembrano vere, la sua disperazione reale, ma Yeong-pyo, membro del temibile Bowibu (polizia segreta) della città, non ci crede: non è lei la donna rimasta sola, evitata come la peste da tutti, dopo che il marito è stato spedito in un gulag solo per aver detto che il nuovo dittatore, Kim Jong-il, si è risposato? Non è lei la madre di Suk-i, che non riesce a trovare marito perché nessuno vuole sposare una “traditrice”? Come può piangere in modo così sincero? Yeong-pyo la guarda incredulo, mentre una voce che il vento porta alle sue orecchie spiega: «Sì, è lei. Si è calata nella parte, ecco perché riesce a piangere così. Ma normalmente solo i grandi attori sono in grado di fare questo genere di cose». Del resto, «ignori forse che lei recita ormai da 45 anni?».

La signora Oh, sua nipote, Kim Suk-i e il membro della polizia segreta sono tutti personaggi del libro che costituisce senza dubbio il caso letterario dell’anno. Tradotto dal sudcoreano e uscito a marzo nelle librerie francesi per i tipi di Philippe Picquier, La dénonciation (La denuncia) offre in sette brevi racconti uno dei migliori affreschi mai realizzati della vita nel più terribile e oppressivo regime comunista rimasto al mondo. A rendere il libro eccezionale è soprattutto l’autore, Bandi, pseudonimo che significa lucciola. Bandi infatti è nordcoreano, ha scritto i racconti di nascosto, è riuscito a farli uscire in forma manoscritta dal paese ma vive tuttora in Corea del Nord. Se la sua identità venisse scoperta, sarebbe torturato e rinchiuso in un gulag per prigionieri politici.

bandi-la-denonciationBandi, una storia nella storia
Il modo stesso in cui i sette racconti sono arrivati in Francia sarebbe materia da romanzo. Nato nel 1950, Bandi ha pubblicato molte opere nella rivista ufficiale della Federazione degli scrittori della Corea del Nord. Durante la grande carestia che colpì il paese negli anni Novanta, causata dalla scellerata politica autarchica comunista, morirono di fame e freddo tre milioni di persone. Tra questi anche molti parenti di Bandi, che davanti all’immane tragedia aprì definitivamente gli occhi sulla realtà brutale del regime. Decise di denunciarla attraverso sette racconti, scritti tra il 1989 e il 1995, poi nascosti in fondo a un armadio, in attesa del momento propizio per riportarli alla luce. Quel momento si è presentato molti anni dopo, quando una giovane parente gli ha comunicato l’intenzione di fuggire dal paese. È attraverso di lei, e un’altra persona, che il manoscritto è giunto all’esterno.

Oggi, oltre a loro due, c’è solo un terzo che conosce la vera identità di Bandi: Do Hee-yoon, capo di una ong che si occupa di rifugiati nordcoreani. Do ha fatto pubblicare il libro in Corea del Sud nel 2014, paragonando Bandi al grande dissidente russo Aleksandr Solzenicyn, che per dare alle stampe Arcipelago Gulag all’insaputa del Kgb dovette microfilmarlo e consegnarlo ad amici francesi. L’analogia tra le due opere e i loro autori non va oltre le disavventure editoriali. Ed è meglio così. Bandi non è il nuovo Solzenicyn. Non ne ha bisogno. La letteratura nordcoreana, del resto, non ha alle spalle l’immenso deposito lasciato dai giganti russi dell’Ottocento.

Il grande merito di Bandi è di aver illuminato come una vera lucciola il buco nero del mondo, i soprusi e le angherie che i 25 milioni di nordcoreani subiscono fin dal 1948 per mano dei dittatori Kim Il-sung prima, Kim Jong-il poi e Kim Jong-un oggi. Un buco nero dove non esiste alcuna libertà, dove la menzogna urlata dagli altoparlanti notte e giorno è dogma, dove nei gulag sono rinchiuse ancora 200 mila persone, dove vige un sistema di caste basato sulla fedeltà al partito, dove le “colpe” dei padri ricadono sui figli per generazioni, dove tutti sono controllati dalle onnipresenti ramificazioni del partito e dove le donne (come la protagonista di uno dei racconti) preferiscono non avere figli piuttosto che farli nascere «in questo inferno».

Il bambino che piangeva troppo
Bandi racconta la vita quotidiana di persone comuni. Come Han Kyeong-hui, terrorizzata da quello che potrebbe accadere alla sua famiglia se il partito scoprisse il problema di suo figlio. Il bambino ha solo due anni ma ogni volta che vede i quadri di Karl Marx e Kim Il-sung piange disperato. Quei «volti severi» gli fanno paura. Il problema è che la madre abita a Pyongyang, vicino a piazza Kim Il-sung, dove campeggiano le gigantografie dei due leader. Ecco perché la donna ha messo le doppie tende alle finestre, per impedire che il figlio veda quelle facce. Ma è l’unica ad avere i vetri velati e qualcuno la denuncia accusandola di essere una spia. Quando, per evitare il peggio, racconta tutto al responsabile del partito del quartiere, questi risponde scandalizzato: «Come? Ha paura del ritratto del nostro Grande Leader?». Solo per questo la sua famiglia sarà cacciata da Pyongyang ed esiliata in una provincia lontana e inospitale.

Affinché il Caro Leader, il partito comunista, la dittatura del proletariato e le masse trionfino, le singole persone devono essere sacrificate. Ne fa le spese Myeong-cheol, che si presenta a testa bassa, come un cane randagio, in un ufficio statale per chiedere il permesso di andare a trovare la madre sul letto di morte. In Corea del Nord, infatti, nessuno può allontanarsi dalla propria città senza un timbro del partito. Ma Myeong-cheol è sfortunato: proprio in quei giorni nella sua regione è in atto un “evento numero 1”, un ritrovo al quale è atteso Kim Il-sung in persona. La sicurezza deve essere massima, nessuno può spostarsi, neanche se «tua madre vive i suoi ultimi giorni». Myeong-cheol tenterà lo stesso il viaggio, di nascosto, ma a un passo dalla meta sarà scoperto e internato in un campo di lavoro.

La storia più amara è forse quella di Seol Yong-su, proletario modello, che ha passato 40 dei suoi 55 anni a combattere per la «vittoria del comunismo» e per la costruzione della patria, ricevendo dal partito 13 medaglie. Ma cosa rimane alla fine del «sogno della sua vita»? Una casa spoglia, fredda come il ghiaccio, niente da mangiare e vestiti logori. Così, quando la moglie gli rinfaccia la loro esistenza miserabile, Yong-su corre in giardino e abbatte a colpi d’ascia l’olmo che aveva piantato il giorno in cui si era iscritto al partito, convinto che questo, come l’albero, avrebbe presto dato frutti miracolosi. La mattina dopo verrà trovato morto per una crisi cardiaca: insieme al legno aveva fatto a pezzi anche tutta la sua vita, spesa nell’illusione di «costruire il Paradiso sulla terra».

La furia di Go Insik
È invece nell’ultimo racconto che Bandi dà voce alla sua ribellione nei confronti di un regime disumano, mettendo in bocca all’eroico Go Insik parole di fuoco. Usato come capro espiatorio per i tanti fallimenti del paese, davanti ai giudici che lo stanno processando pubblicamente in uno stadio, Go sfoga la sua rabbia contro la sede del partito: «Questo fungo rosso, estirpatelo! Questo fungo velenoso, sradicatelo da questa terra, anzi no, da tutto il pianeta, per sempre!». Davanti a un uomo che finalmente si strappa di dosso i panni dell’attore e smette di recitare la commedia, richiamando il popolo alla verità, i giudici e gli emissari del partito non possono che farlo portare via, commentando: «Il processo è aggiornato, l’accusato non è più visibilmente in possesso delle sue facoltà».

Nella speranza che La dénonciation sia presto tradotto anche in italiano, non possiamo che concludere con le parole usate da Bandi nel prologo:

«Questo barbuto europeo (Karl Marx, ndr)/ Ha affermato che il capitalismo è un mondo di oscurità/ Mentre il comunismo è un mondo di luce/ Io, Bandi, che vivo nel mondo della luce/ Il mio destino è di non brillare se non nell’oscurità/ E io denuncio forte e chiaro che/ Se quell’oscurità è una notte senza luna/ Il mondo della luce di questo barbuto è un abisso/ Dove regna un nero d’inchiostro».

Leone Grotti | Tempi.it

Foto Ansa/Ap

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