Cosa spinge Hasna e i ragazzi dell’Isis a perdere la propria vita per prendersi quelle degli altri?

hasna-ait-boulahcen-parigi-ansaLa giovane passata in pochi mesi dai jeans al terrorismo. E il commissario fuori servizio morto al Bataclan per indicare a sconosciuti la via d’uscita. 

Hasna Ait Boulahcen, 26 anni, passa in pochi mesi dai jeans, dall’alcool oltre misura, dalle immagini di sé stessa nella vasca da bagno coperta solo da schiuma e fatte girare sui social, all’appartenenza a un gruppo terroristico, fino al capolinea: il corpo squarciato dall’esplosivo del compagno al suo fianco al momento del conflitto con i poliziotti parigini.

Guardiamo quei fotogrammi, alla ricerca di una logica che li leghi: Hasna non è nata né cresciuta in un campo profughi in Medio Oriente, né è venuta fuori da un villaggio dell’Afghanistan, mandata a compiere una missione nell’odiato Occidente. È una giovane che fino a non molto tempo fa si mostrava con cappelli da cowboy e non sembrava conoscere regole o imposizioni; l’ultima fotografia la immortala col velo nero: le sole parti del corpo visibili sono gli occhi e due dita a forma di V.

Prima di morire è difficile che abbia avuto il tempo di imparare a memoria i versetti del Corano, come invece fanno tante sue coetanee nelle terre dominate dall’islam: ha trascorso più tempo ad ascoltare la satanica musica occidentale che la confortante parola del Profeta. E poi che è successo? Domandarselo non vale solo per capire un percorso individuale di morte, ma pure per chiedersi per quanti altri ragazzi questo percorso è in svolgimento nelle strade delle nostre città, nel condominio a fianco al nostro, nel quartiere in cui viviamo.

Sarà interessante conoscere i profili dei terroristi rimasti uccisi dal loro stesso esplosivo o negli scontri con la polizia. Probabilmente sarà necessario operare delle distinzioni: a Parigi la mente delle operazioni finora individuata è Abdelhamid Abaaoud, belga di origini marocchine fuggito in Siria nel gennaio del 2015 e ucciso nel blitz di Saint-Denis il 18 novembre; un’intervista ad Abaaoud (nome di battaglia Abu Umar al Baljiki) compare sul penultimo numero di Dabiq, l’elegante rivista dell’Isis, e ciò conferma il rilievo del personaggio nella galassia terroristica. Ma il profilo degli altri, di alcuni dei quali non si conosce ancora il nome, è così qualificato? O si avvicina a quello dell’ex cowgirl?

La miscela sembra composta da professionisti del terrore e da aggregati dell’ultim’ora; mentre è chiara la dinamica perversa che fa emergere figure come Abaaoud, qual è la molla che spinge giovani come Hasna ad abbandonare la propria vita e a perderla facendosi esplodere? Da un lato vi è il potere di suggestione dell’Isis: nonostante non sia in sé invincibile, e anzi abbia subìto e subisca dei colpi pesanti, esercita un fascino non da poco, funzionale al reclutamento. Dall’altro vi è il nulla che si respira nelle città occidentali, l’incapacità di capire la propria storia e il proprio ruolo, che si traduce nell’incapacità a ricevere qualcosa che dia senso all’esistenza.

Il commissario fuori servizio
Arnaud Beldon, 38 anni, commissario di polizia. Venerdì 13 non è in servizio e accompagna la fidanzata al concerto del Bataclan. Viene colpito dalle raffiche di mitra, è ferito gravemente ma, rendendosi conto di quel che accade, urla con tutta la forza che gli resta che vi è un attacco in corso; con incredibile sangue freddo, grida indicando a chi è intorno a lui quali sono le vie di fuga. Quando il teatro viene liberato, è trovato a terra in mezzo al sangue che continua a balbettare nell’incoscienza quelle indicazioni che hanno salvato tanti.

Hasna dapprima riempie le sue giornate di banalità, poi sente un richiamo forte e non resiste alla tentazione di fare qualcosa di devastante, che la faccia uscire da quel nulla, e semina la morte per gli altri e per sé. Arnaud adopera le sue energie, anche quando non ci sono più, per la vita di chi neanche conosce.

Di fronte a un’aggressione che finora non ha conosciuto una reazione di Stati, coalizioni e istituzioni degna di questo nome, quel balbettio che prosegue nonostante tutto, ci indica non solo la via d’uscita da un teatro assediato, ma che per farcela sarà necessario metterci tutto noi stessi.

Alfredo Mantovano | Tempi.it

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