I kenioti cercano in Ruanda soluzioni di pace praticabili per il loro Paese

Oltre cento rappresentanti kenioti delle chiese, della società civile, di movimenti femminili e giovanili si sono recati in Ruanda per partecipare a sei giorni di sessione per discutere il modello ruandese di riconciliazione e di ricostruzione. A due settimane dalle elezioni keniote, cercano i mezzi per prevenire nuove violenze interetniche.
“Non siamo stati noi a invitarli, ma sono stati loro a esprimere il desiderio di venire qui”, ha dichiarato André Karamaga, segretario generale della Conferenza delle chiese di tutta l’Africa (CETA) a Kigali, nel corso di una riunione tenutasi dal 4 al 9 febbraio. L’uomo non si è fatto pregare per organizzare la trasferta di un centinaio di personalità.
Di notte, su scomodi autobus, responsabili di chiese cristiane del Kenya, anziani, rappresentanti di donne e giovani, giornalisti hanno percorso il tragitto che da Nairobi conduce a Kigali.
Giunti sul posto sono stati accolti dal Consiglio protestante del Ruanda che ce l’ha messa tutta: visite ai luoghi della memoria del Genocidio, discorsi di ministri e altre personalità dell’amministrazione. Per i ruandesi l’occasione di vedersi presentati come buoni allievi era tanto rara quanto preziosa.
Perché i kenioti, cittadini di uno dei Paesi più sviluppati dell’Africa, si sono recati un questo piccolo Stato dell’Africa centrale, uscito a stento dal genocidio? Probabilmente per il bisogno di riflettere pacatamente sui propri problemi dall’esterno. Problemi per nulla trascurabili. “Fino al 2007 si poteva pensare al Kenya come a un’isola di pace in una regione di conflitti, ma oggi non è più così”. L’ambasciatrice del Kenya in Ruanda non ha nascosto la situazione preoccupante del proprio Paese. Nessuno l’ha contraddetta. I kenioti incontrati sono ancora profondamente segnati dalle violenze che hanno insanguinato il Paese nel 2007-2008. Portano l’angoscia di una nuova esplosione di violenza in concomitanza delle prossime elezioni, previste per il 4 marzo.
Velatamente riconoscono che se dovesse accadere, in particolare nella valle di Rift, il Paese potrebbe prendere fuoco a livelli inattesi, terrificanti.
Di fronte a ciò che presentano come possibile nel loro Paese, i kenioti cercano qui una sorta di catarsi, di choc salutare che darà loro l’energia di lottare contro un demone terribile. Quello che ha eroso il Ruanda per decenni con i risultati che conosciamo e che è all’opera in Kenya: l’etnicismo. “Non cerchiamo di immischiarci nella politica keniota, ma di evitare che essa diventi un pretesto o cristallizzi odi interetnici”. Questa osservazione di un delegato keniota chiarisce le loro reali aspettative; in Ruanda non cercano un sistema politico modello, dal momento che dispongono di un multipartitismo molto vivo. Hanno bisogno di confrontarsi con una società che ha visto il peggio dell’etnicismo e che ha deciso di non concedergli mai più spazio, con uno sforzo di riconciliazione e di ricostruzione. In conclusione degli scambi il presidente della Conferenza episcopale cattolica del Ruanda ha ricordato loro le proprie responsabilità di credenti e di pastori, poiché è inoppugnabile che l’identità etnica non deve prevalere sull’identità di tutti gli esseri umani.

ProtestInfo

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