Il Giovane Ricco

“…SE VUOI ESSERE PERFETTO, VA’, VENDI QUELLO CHE POSSIEDI, DALLO AI POVERI E AVRAI UN TESORO NEL CIELO, POI VIENI E SEGUIMI…”

SULLA RICCHEZZA: OSTACOLO PER CHI VUOLE ENTRARE NEL REGNO DEI CIELI (MT 19:16-22)

Nel 1972 nelle sale cinematografiche italiane viene proiettato il film di Franco Zeffirelli “Fratello Sole e Sorelle Luna” E’ una biografia romanzata e liricamente intensa di Francesco d’Assisi. Figlio di un ricco mercante, Francesco è vissuto tra la fine del XII secolo e l’inizio del XIII secolo. Francesco apparteneva a quella borghesia grassa che tanto peso avrà nella formazione dei Comuni. La sua giovinezza fu contrassegnata da una allegra vita gaudente, finché un giorno del 1203, durante una spedizione militare, cadde ammalato a Spoleto. Furono momenti di profonda crisi spirituale, la vita goliardica ed avventurosa non lo soddisfaceva più. Tornato ad Assisi si liberò di tutti i suoi averi per abbracciare una esistenza umile e povera al servizio di Cristo che lo rende ricco in amore per il creato il prossimo. Suggestiva è la canzone, che porta lo stesso titolo del film, composta dal musicista Riz Ortolani e cantata da un giovanissimo Claudio Baglioni, i cui versi sono struggenti come del resto tutto il canto: “Dolce sentire come nel mio cuore ora umilmente sta nascendo amore…dolce capire che non sono più solo, ma che sono parte di una immensa vita che generosa risplende intorno a me…dono di Lui, del Suo immenso amor…

Trent’anni prima un altro mercante originario di Lione, Valdesius, meglio conosciuto come Valdo, verso il 1173, rispose all’appello di Cristo alla conversione, rinunciando ai suoi beni e seguendo Cristo. Valdo, da cui proviene il movimento valdese, accoglie l’invito fatto da Gesù al giovane ricco, si spoglia dei suoi beni, iniziando un’opera di predicazione popolare. Ciò che accomuna i due leaders dei due movimenti, che avranno una durevole continuità storica, che si protrae fino ai giorni nostri, anche se essi imboccarono due strade diverse (il movimento francescano sarà leale al Papa, mentre quello valdese imboccherà la strada della dissenso, aderendo quattro secoli dopo alla Riforma franco-elvetica nel 1532), fu la protesta contro una società cristiana secolarizzata che ha smarrito la via maestra dell’Evangelo, Gesù Cristo, attraverso una reazione radicale nei confronti della ricchezza: la scoperta dell’evangelo determinava uno stile di vita umile dedita alla predicazione e all’amore verso il prossimo. Benché il movimento pauperistico e gli ordini mendicanti abbiano inciso sulla società medievale, tuttavia esso non deve essere preso come paradigma di un’autentica azione cristiana, anche se esso ha un forte supporto evangelico. Ed è proprio l’episodio evangelico, che vede protagonista Gesù e un giovane ebreo facoltoso, che vogliamo esaminare per poter comprendere il forte peso spirituale che Gesù da all’azione di fede del discepolo.

Il testo di Matteo 19:16-22 è interposto tra quello che riguarda la dignità dei bambini come uomini in crescita (il Regno dei Cieli è composto di “bambini”) e quello riguardante l’ammonimento di Gesù ad non essere attaccati al denaro, impedendo di entrare nel Regno e la ricompensa per chi lascia i beni per amore di Gesù. (vv.27-30) Matteo parla di un giovane, mentre Luca riferisce che era un notabile, ossia una persona influente nella società giudaica. Egli va da Gesù, chiamandolo Maestro, chiedendo quali importanti azioni deve realizzare per avere la vita eterna. La sua domanda sembra essere determinata da una spasmodica ricerca di una risposta che avrebbe rassicurato la sua ansia di ottenere la vita eterna e comunque essa è ispirata dalla religiosa consapevolezza che bisogna fare qualcosa di nobile invece di realizzare la nobiltà dell’essere. E’ interessante che la sua condizione economica, il fatto che sia ricco, non è menzionata all’inizio del discorso. E’ importante invece la domanda che egli pone: “Che cosa devo fare per avere la vita eterna?” Egli crede che realizzare una azione caritatevole spettacolare può accattivarsi il favore divino che lo ricompenserebbe con il dono della vita eterna. Gesù risponde con una controdomanda: “Perché mi interroghi intorno ciò che è buono”, intendendo con la parola buono, la qualità assoluta di Dio. Infatti, Gesù afferma solennemente: “Uno solo è buono. Ma se vuoi entrare nella Vita, osserva i comandamenti”. Gesù rimanda il giovane e ansioso giudeo all’unico essere buono, cioè Dio (di fronte a Lui gli uomini sono malvagi) e all’osservanza dei comandamenti. Il pio giudeo incalza Gesù con una domanda perentoria: “Quali?” Egli chiede a Gesù quali sono i comandamenti che devono essere osservati. Gesù rimanda il giovane e devoto giudeo ai comandamenti del decalogo che disciplina i rapporti interpersonali.

Dei dieci comandamenti, quelli che vanno dal quinto al nono riguardano soprattutto come si comporta l’uno verso l’altro, i quali vengono riassunti con le parole “amerai il prossimo tuo come te stesso. (Lev.19:18) La replica è immediata, non senza affanno: “tutte queste cose le ho osservate; cosa mi manca ancora?” Il notabile giudeo è consapevole che l’osservanza di quei decreti divini è il risultato di un atto formale, è pura esteriorità e non esprime l’autenitca “bontà”. La risposta di Gesù è affettuosamente radicale. Infatti nell’Evangelo di Marco è raccontato che Gesù amò il pio giudeo a cui rivolse un invito perentorio di sbarazzarsi di tutti i suoi averi con un atto di generosità rivolto ai meno abbienti e di seguirlo: “Se vuoi essere perfetto và, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi”. (v.21) La perfezione di cui parla Gesù, è inteso, non è la perfezione assoluta, che rende l’uomo senza peccato. Gesù vuole evidenziare una realizzazione della bontà che supera la giustizia degli scribi e dei farisei (Mt 5:20), impossessandosi della volontà e del carattere di Dio, ossia di Colui che è perfetto. (Mt 5:48) In che modo? Seguendo Gesù. Facendo così, il pio e ricco giudeo realizza l’osservanza dei primi due comandamenti del decalogo, l’intima relazione tra Dio e il credente: “Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione di schiavitù; non avrai altri dei all’infuori di me”. (Esodo 20:1-7) Gesù tacitamente si autoproclama il Dio dell’AT. E’ il Dio pieno di bontà a cui Gesù rimanda il pio giudeo e per il quale il discepolo investe tutta la sua esistenza. La chiamata alla sequela di Gesù e l’ubbidienza si rivelava fondamentale perché il pio giudeo risolvesse il suo vuoto interiore. Il sacrificio richiesto sull’altare della fede era la ricchezza, che come un dio, usurpava la regalità del vero ed unico Dio nella vita del ricco giudeo. Il giovane rifiuta l’invito alla sequela. Egli volge le spalle a colui il quale lo poteva arricchire, anche se egli si fosse privato delle sue ricchezze. La tristezza che lo affligge ha le sue radici nell’amore di sé e del suo denaro, da cui non vuole allontanarsi. L’esigenza prioritaria del Regno deve prevalere su ogni altra considerazione mondana: i beni, gli interessi personali, persino gli affetti familiari e la stessa vita devono essere subordinati al bene supremo, che è il Regno. Gesù, richiedendo al pio e ricco giudeo di privarsi dei beni, non gli proponeva una via migliore, ma una condizione indispensabile per entrare nel Regno. Per salvarsi, nella sua condizione concreta, egli doveva liberarsi di tutti i suoi beni a cui morbosamente era attaccato. Non si può servire Dio e Mammona. (Mt 6: 24) Per il giovane giudeo si imponeva una scelta radicale: liberarsi dei beni, egli era libero per Dio. E tale libertà si realizza solo seguendo Gesù.

La chiamata del giovane ricco giudeo è una sequela mancata. L’uomo ha anteposto la sicurezza e il potere del denaro alla sequela di Cristo che gli avrebbe garantito l’entrata nel Regno. Ci si chiede se Gesù disprezzasse la il denaro o considerasse la povertà una condizione nobile di vivere l’evangelo. Alla luce di una lettura attenta degli Evangeli a me non sembra che Gesù volesse creare una comunità di nullatenenti, i quali, privatisi dei loro beni, potessero vivere liberamente l’evangelo. Certamente, nel periodo medievale è individuabile un forte movimento pauperistico. Tuttavia, esso nacque e si affermò come reazione alla secolarizzazione della Chiesa e al suo potere economico. Si svilupparono gli ordini mendicanti e proliferarono i conventi, nei quali gli spiriti mistici cercavano conforto e anelito di libertà. Ma nell’insegnamento di Gesù non c’era l’invito di creare una classe privilegiata di cristiani, un gruppo elitario di “eroi” cristiani che rinunciavano al mondo per una vita rigorosamente meditativa e contemplativa. La chiamata di Gesù è mirata e circostanziata. Gesù invita le persone chiamate a relativizzare i tesori naturali, il denaro, la carriera, la professione, la famiglia, la cultura, la scienza, la tecnologia, i quali essendo assolutizzati e “divinizzati”, impediscono di realizzare un ordine armonioso delle attività umane al cui apice deve svettare l’autorità assoluta di Cristo che dà senso e scopo ad esse. Gesù non è un pauperista, non è un nemico della ricchezza, non demonizza il denaro. Al suo seguito vi erano uomini danarosi che sostenevano l’opera missionaria di Gesù e dei suoi discepoli e verosimilmente venivano incontro alle esigenze economiche dei cristiani economicamente disagiati.

Ma resta il fatto che la ricchezza è uno dei grandi mali della società, causa di discordia e di inimicizie per il raggiungimento della l’uomo è capace di prevaricare, frodare, di uccidere. Paolo stesso lo afferma alcuni decenni dopo la nascita delle prime chiese cristiane nella sua prima lettera a Timoteo: ” …Noi non abbiamo portato nulla in questo mondo e nulla possiamo portarne via. Quando dunque abbiamo di che mangiare e di che coprirci, contentiamoci di questo. Al contrario, coloro che vogliono arricchire, cadono nella tentazione, nel laccio e in molte bramosie insensate e funeste, che fanno affogare gli uomini in rovina e perdizione. L’attaccamento al denaro infatti è la radice di tutti i mali; per il suo sfrenato alcuni hanno deviato dalla fede e si sono da se stessi tormentati con molti dolori …Raccomanda ai ricchi in questo mondo di non essere orgogliosi, di non riporre la speranza sull’incertezza delle ricchezze, ma in Dio, che tutto ci dà con abbondanza perché ne possiamo godere; di fare del bene, di arricchirsi di opere buone, di essere pronti a dare, di essere generosi, mettendosi così da parte un buon capitale per il futuro, per acquistarsi la vita vera…” (1^ Tim. 6: 7-10, 17-19)

D’altra parte, anche la povertà è un male sociale e non una virtù cristiana. L’uomo è privato della sua autonomia ed è lesiva della dignità umana, anche se vi sono uomini che la vivono dignitosamente. Il povero non ha potere d’acquisto, non può usufruire dei beni di consumo di prima necessità, non è in grado di assicurare per se stesso e per la sua famiglia una educazione scolastica adeguata e uno stato sociale soddisfacente, condannato a vivere ai margini della convivenza civile. Il messaggio di Gesù è anche un messaggio che libera dall’indigenza, che conferisce all’uomo dignità di vivere decorosamente la vita. Ogni uomo ha il diritto di godere ogni benessere naturale e sociale. La richiesta di Gesù al ricco giudeo di privarsi delle sue ricchezze non è finalizzata a rendere il giudeo indigente, come atto eroico di virtù cristiana, ma a porsi alla sua sequela come discepolo chiamato a lavorare per il Regno di cui si sarebbe dovuto appropriare, come d’altra parte hanno fatto i discepoli della prima ora, esercitando quella fede nella provvidenza di Dio che si prende cura degli uccelli della campagna e dei gigli dei campagna.

E’ l’amore per la ricchezza, è l’idolatrarla nel cuore, che costituisce il vero pericolo, e induce ad essere escluso dal Regno; i poveri che agognano avidamente le ricchezze, che non hanno, sono esposti a questo pericolo non meno di coloro che vivono nell’opulenza. E’ eloquente ed incisiva a tal proposito la preghiera di Agur: “Tieni lontano da me falsità e menzogna, non darmi né povertà né ricchezza; ma fammi avere il cibo necessario, perché una volta sazio, io non ti rinneghi e dica: “Chi è il signore?”, oppure, ridotto all’indigenza, non rubi e profani il nome del mio Dio…” (Prov.30:8-9)

Là dove, nella fede in Dio, e nella sequela di Cristo, si accetta la ricchezza e essa viene gestita con responsabilità, non accade nulla di diverso di quanto avviene là dove, nella fede in Dio e nella sequela di Gesù, si rinuncia a possedere, perché in entrambi i casi il discepolo di Gesù è motivato dalla libertà e dalla gioia del vincolo totale con Dio.

Paolo Brancè | Notiziecristiane.com

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