Il posto del rito

bar20mitzvahSegnare le grandi tappe della vita mediante dei rituali è un bisogno connaturato a tutti gli esseri umani. I protestanti non possono dimenticarlo.(Antoine Nouis) La prima volta che ho assistito a un bar mitzvah mi consideravo un po’ come un entomologo che osservava un nuovo fenomeno. Ho visto un ragazzo di tredici anni superare una prova difficile: ha letto un brano della Bibbia, in ebraico non vocalizzato, davanti al suo rabbino, alla propria famiglia e a tutta l’assemblea. Al termine della cerimonia è stato accolto in un locale separato da tutti gli uomini della comunità. Sono stato colpito da una convinzione: “Questa sera, quando si coricherà, questo ragazzo non si porrà più domande su chi è; è un bar mitzvah, un figlio del comandamento”.

Bisogno profondo
Se tutte le civiltà hanno ritualizzato i grandi passaggi della vita: la nascita, la pubertà, il matrimonio, la malattia, la guarigione e infine la morte, è perché il bisogno di nominare le tappe risponde a una realtà molto profonda della nostra umanità. Forse gli angeli non vi hanno mai fatto ricorso, ma noi siamo esseri umani e le celebrazioni sono necessarie per segnare il tempo e organizzare la memoria. I bambini sono  molto ritualisti, la ripetizione di ciò che è noto ha per essi un carattere rassicurante. Lo vediamo nelle liturgie dell’andare a letto, in cui si susseguono secondo un ordine immutabile il bacio, la storia, il bicchiere d’acqua, la pipì e la preghiera. L’ordine e le sequenze cambiano secondo le famiglie, ma il bisogno di rito è universale.

Emozione e ripetizione
I riti non si rivolgono soltanto ai bambini; tutti abbiamo bisogno di cerimonie che permettano di disporre i tempi e gli eventi di rilievo al loro posto. Il rito ordina e orienta, articola la parola e il corpo, il passato e il presente, il visibile e l’invisibile, l’individuo e la comunità.
Oltre che segnare il tempo, il rito unisce gli uomini permettendo di acquisire un’identità collettiva. Il greco di Chicago si sentirà in comunione con quello di Salonicco nel festeggiare la risurrezione di Cristo secondo il calendario giuliano e la celebrazione del Kippur permette alle famiglie ebree nel mondo intero di sentirsi all’unisono con Gerusalemme.

Disprezzo e mistero
Da dove proviene il disprezzo che talvolta i teologi esprimono per i riti? Probabilmente dal fatto che il rito è popolare, che fa appello tanto all’emozione quanto alla ragione e che si manifesta nella ripetizione. È in queste differenti dimensioni che ha la sua efficacia. Nel film Jésus de Montréal il giovane attore chiamato a interpretare il ruolo di Gesù va a trovare un prete della sua chiesa per rimproverargli i suoi compromessi con la religione. Il prete risponde parlando delle persone che frequentano la sua parrocchia: “Qui c’è un assembramento di miseria umana. Si tocca il fondo, la solitudine, la malattia, la follia. Queste persone vogliono sentire che il figlio di Dio le ama, che le aspetta. Molte persone non hanno i mezzi per pagarsi un’analisi lacaniana, allora vengono qui a farsi dire: ‘I vostri peccati vi sono rimessi’”.
È nella natura del rito avere una parte di mistero. Se non ha un’efficacia immediata, deve tuttavia restare intelligibile per essere pertinente, c’è bisogno di ascoltare ciò che dice, anche se la sua intenzione va al di là di ciò che si può comprendere o analizzare.

Rito e parola
Il protestantesimo diffida dei riti. Ha ragione se si tratta di un formalismo senza contenuto, ma ha torto se pensa di potersi liberare di questa realtà antropologica universale. Jung ha scritto che “per una religione completa il punto di vista della ‘sola fede’ sembra insufficiente. Ogni religione si serve di due piedi: la fede da un lato e il rito dall’altro”.
L’essere umano ha bisogno  di riti e di cerimonie per esprimere e organizzare ciò che crede. Spetta a noi trovare un uso protestante del rito inserendolo in tensione con la parola. Se tutto si basa sulla parola e sulla sua interpretazione si corre il rischio di una religione paternalistica e moraleggiante che dipende dalla soggettività del pastore e dalla capacità di attenzione dei fedeli. Se c’è soltanto il rito, si corre il rischio di chiudersi nella ripetizione e nella routine. Per questo bisogna trovare il giusto equilibrio tra la parola e la liturgia, la sola fede e il rito.
Se il rito permette a volte alla parola di rivelarsi, la parola impedisce al rito di rinchiudersi in sé stesso e di diventare fine a sé stesso. Il rito umanizza la nostra umanità quando è al contempo retto e contestato dalla parola. (da Réforme; trad. it. G. M. Schmitt/voceevangelica.ch)

Tratto da: http://voceevangelica.ch/

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