Il Sud cola a picco tra assistenzialismo e criminalità… Quale futuro possiamo attenderci?

imagesIn undici anni, tra il 2001 e il 2012, il calo degli investimenti industriali (nazionali e stranieri) nel Sud, è stato quasi del 50%, contro il 14,8% registrato al Nord. Il dato è contenuto nel rapporto SVIMEZ, che sarà diffuso nei prossimi giorni. Si chiama desertificazione industriale: la caduta verticale degli investimenti fissi lordi, testimonia anche l’impossibilità di realizzare gli ammortamenti e quindi, di fatto, la distruzione del capitale da impegnare. Negli ultimi 4 anni (2008-2012), la produzione industriale è diminuita del 22%, contro il meno 13% del Nord. Meno investimenti e aumento della disoccupazione (141mila i posti persi nell’industria, 300mila i senza lavoro e un tasso di senza lavoro tra i giovani che sfiora il 50% del totale nella fascia fino ai 29 anni), comportano il rischio della scomparsa dell’industria al Sud, oltre che il calo pauroso del PIL (la previsione è -3% quest’anno, contro il -2% del Nord). Fin qui i numeri. Agghiaccianti, per quanto riguarda il futuro del Mezzogiorno.

Le cause? Tutte conosciute: la presenza di una burocrazia che è stata alimentata, nel corso dei decenni, dalla logica perversa del clientelismo; il costo del denaro più alto rispetto al Nord; l’insicurezza di chi potrebbe investire, perché ampi territori del Sud sono dominati dalle organizzazioni criminali e dal loro rapporto con la pubblica amministrazione; la mancanza di infrastrutture; la scarsa qualità dei servizi; l’assenza di prospettive di governo di questa realtà e via dicendo. Le conseguenze? La diffusione endemica della povertà, come ha documentato l’ISTAT, nella ricerca diffusa in questi giorni, in base alla quale un quarto dei poveri vive al Sud. I rimedi? Gaetano Salvemini, nel secolo scorso,  ammoniva chi aveva a cuore la crescita civile e sociale del Mezzogiorno, non doveva indulgere nei confronti di quel meridionalismo che “dalle condizioni di arretratezza del Sud finiva con il trarre motivi di giustificazione per l’assistenzialismo paternalistico ed il parassitismo”. Occorreva – diceva Salvemini – una maggior responsabilizzazione della classe politica e delle popolazioni del Sud. Dalla valorizzazione delle cui risorse si attendeva sin da allora il loro riscatto.

Stiamo parlando come se il tempo si fosse fermato ad un secolo fa. Durante tutto questo periodo, l’assistenzialismo ha finito per deteriorare la qualità delle classi dirigenti meridionali, indebolendo la loro capacità di governo e la loro visione strategica, salvaguardata dalla certezza che a ripianare i disavanzi avrebbe provveduto lo Stato con i suoi interventi. Senza un buon governo, senza buona amministrazione e senza, soprattutto, assunzione di responsabilità della classe dirigente meridionale, nessuna politica a favore del Sud, quindi a favore del Paese, può avere successo. Un grande meridionalista, sempre del secolo scorso, Guido Dorso, ne “La Rivoluzione Meridionale”, scriveva così: “il Mezzogiorno non ha bisogno di carità, ma di giustizia; non chiede aiuto, ma libertà. Se il Mezzogiorno non distruggerà le cause della sua inferiorità da se stesso, con la sua libera iniziativa e seguendo l’esempio dei suoi figli migliori, tutto sarà inutile…”.

Altri tempi, altri uomini e altre storie. Ora tutto, anche la libertà del Mezzogiorno, il suo affrancamento dalla carità pelosa e inutile, sembra dipendere dallo spread, dai banchieri, dai tecnocrati, da coloro che per “mestiere” badano solo all’approccio utilitaristico e materiale alla realtà che li circonda, ignorando la ragione intrinseca, antropologica, dell’essere umano che vive nel mondo. Sono inclini a “servire” l’impostazione e la prassi di decenni di politica d’accatto, che ha fatto strame di un territorio, depredandolo delle sue risorse, intellettuali e umane e offrendogli solo miserevole assistenza, quando andava bene. Non uno straccio di proposta che affranchi questa parte d’Italia dalle sue miserie. Da parte di quella classe politica e imprenditoriale, che ha praticato, per sopravvivere a se stessa, un connubio strettissimo con la criminalità, organizzata e no, che si spartisce posti di potere e di sottopotere in una girandola vergognosa di malversazioni e di corruzione, che ha fatto crescere nella società civile, divenuta connivente, la convinzione che tutto possa essere comprato. La vita, i bisogni, le speranze.

Quando Dorso parla di libertà, sa che questa è cultura. Capacità di esercitare la responsabilità, riconoscere la propria dignità e pretenderne il rispetto. Se un popolo non cresce nella cultura, è morto nella sua identità. Sopravvive. Si arrangia. Si piange addosso. Procede per inerzia. Il potere è consapevole che mantenere le persone nell’ignoranza, rende più semplice il governo delle cose e ci sguazza in questo disegno perverso. Al di là delle celebrazioni rituali e ipocrite sull’unità d’Italia, che non si è mai realizzata, è questa la condizione attuale del Mezzogiorno. Una “grande questione nazionale”, così come viene definita nei discorsi pomposi e ripetitivi, oltre che ipocriti, che non si riuscirà mai a risolvere se non sarà chiaro il punto di partenza: devono essere i meridionali a comprendere il degrado che li circonda e ad operare di conseguenza. Devono guardare al mondo, acculturarsi, conoscere, formarsi, respirare aria pulita. Far crescere i loro figli, sin da bambini, nella necessità di accumulare sapere e saperi, di praticare le regole e i doveri, che sono l’essenza dell’esercizio della libertà. Come? Mettendosi “in gioco”, cercando di testimoniare la verità sulla vita a cui sono costretti, priva di decoro e di prospettive per le quali valga la pena essere al mondo. Ci vorranno generazioni? E’ possibile. L’alternativa è prendere atto che il territorio del Sud d’Italia è nella sua interezza estraneo ad una prospettiva di civiltà.

L’unica via d’uscita. Una delle preoccupazioni che Dio rivelò in relazione al cammino del Suo popolo e che incaricò Mosè di esternare in modo quanto mai chiaro nel secondo dei suoi discorsi riassuntivi della legge, riguardava l’educazione e la formazione delle generazioni future.

Dopo l’invito solenne “Ascolta, Israele!”, che stava ad indicare l’estrema importanza di quanto il Signore stava per dire al Suo popolo, leggiamo le parole: “Questi comandamenti che oggi ti do ti staranno nel cuore; li inculcherai ai tuoi figli…” (Deuteronomio 6:6).
Attraverso Mosè Dio cercò di far capire al popolo che il suo futuro lo avrebbe costruito nel presente, perché i figli sarebbero stati frutto dell’esempio e dell’educazione dei genitori.
Questa educazione avrebbe dovuto avere come base e come programma la Sua Parola. Ciò che colpisce è che il momento dell’insegnamento, il momento cioè della comunicazione ai figli dei contenuti di questa Parola (“questi comandamenti che oggi ti do li inculcherai”) doveva essere preceduto da un costante esempio di vita (“ti staranno nel cuore”).
Questo è il segreto del successo di ogni azione educativa: l’esempio che precede ed accompagna l’insegnamento. Se tanti padri, tanti insegnanti, tante “autorità” falliscono nel loro compito è perché o non sono disponibili ad un’azione educativa perseverante e globale come quella richiesta da Dio (“ne parlerai quando te ne starai seduto in casa tua, quando sarai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai…”) oppure – realtà purtroppo più frequente – non sanno coerentemente accompagnare con il loro esempio di vita quanto vanno insegnando.
Dopo diversi anni da questo avvertimento il popolo d’Israele conobbe, al tempo dei Giudici, uno dei periodi più critici della sua storia (da ogni punto di vista: spirituale, morale, politico, economico, di sicurezza nazionale), l’autore biblico non esitò ad indicarne la causa: “…dopo quella vi fu un’altra generazione che non conosceva il Signore né le opere che Egli aveva compiute in favore d’Israele” (Giudici 2:10).
In quel tempo cioè le famiglie e la società d’Israele furono composte da persone nei confronti delle quali i genitori erano clamorosamente venuti meno alle loro responsabilità ed al loro impegno. Questa mancanza di insegnamento e di esempio provocò tutti i guasti e le sofferenze di cui troviamo ampia testimonianza storica nel libro dei Giudici.
Il richiamo di Dio, attraverso la Sua Parola, ci porta ad interrogarci e a riflettere – mi auguro con uno spirito critico e costruttivo – sulla situazione
  • delle nostre famiglie,
  • delle nostre chiese e
  • della società in cui viviamo.
A proposito di quest’ultima, è indubbiamente facile puntare l’indice, ad esempio, verso una vecchia classe politica per descrivere la quale occorre far ricorso ad “edificanti” parole, quali:
  • arricchimento personale,
  • assistenzialismo e sperpero del denaro pubblico,
  • corruzione,
  • collusione con mafia e criminalità varie,
  • prostituzione,
  • disprezzo per gli immigrati stranieri ecc…
E che dire della nuova classe politica che sbandiera le proprie proposte di rinnovamento con un linguaggio scurrile, volgare, offensivo nei confronti di tutti e di tutto? Se questo è il presente in cui si costruisce la società italiana, cosa possiamo aspettarci dal futuro?  Certamente: nulla di buono!
Ma occorre puntare l’indice anche verso di noi: quale esempio riceveranno le future generazioni dal numero purtroppo crescente di famiglie che si disgregano?
  • Quale esempio dalle chiese locali in cui tensioni, litigi, divisioni si sprecano?
  • Quale esempio da quelle in cui si tollera con indifferenza il peccato?
  • Quale esempio da genitori che, pur dicendosi credenti, non mostrano più di avere una fede operante, non dando più, nelle loro quotidiane scelte di vita priorità al Signore e alla Sua Parola?
Domandiamoci: su queste basi, quale futuro possiamo attenderci? Se altri hanno mancato nei nostri confronti, venendo meno nell’insegnamento e nell’esempio, impegniamoci, noi, a non mancare verso i nostri figli!!
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