Non c’è nulla di più ideologico (dunque stupido) di una legge che inasprisce le pene per un fenomeno in calo. Questo accade in Scozia, dove i “crimini d’odio” sono calati del 2% nel corso di un anno. Ciononostante il governo in mano a Humza Yousaf fa passare una legge che allarga al massimo possibile il campo di applicazione di una legge già esistente relativa appunto ai reati di incitamento all’odio. La scusa, sempre valida, è che il calo registrato è causato non da un miglioramento della situazione, ma dal fatto che i crimini d’odio sanno nascondersi meglio, sanno camuffarsi e scorrere in modo carsico nella società. Dunque c’è il bisogno di una legge che permetta di stanare gli odiatori di professione là dove si nascondono.
Fin qui in realtà nulla di strano, se non fosse Yousaf ha pensato bene di rispolverare quell’Hate Crime Act che stava ad ammuffire in Parlamento dal 2021 e lo renderà esecutivo a partire da aprile. La legge, revisionata per l’occasione, oltre a inasprire ulteriormente le pene per i reati già previsti, in gran parte collegati al razzismo, introduce la nuova fattispecie del “incitamento all’odio” e la collega a praticamente tutto lo spettro di ciò che possiamo intendere come politicamente corretto. Dunque sarà reato “incitare all’odio”, oltre che sulla base di questioni razziali, anche sulla base dell’identità transgender – oltre che di altri casi condivisibili come la disabilità.
Il problema è che il confine tra libera espressione della propria opinione (specie se critica) e il reato di incitamento all’odio è talmente sottile da non poter quasi essere identificato, soprattutto nel campo della sessualità. I molti in Scozia preoccupati per la tutela della libertà di espressione hanno cercato di aprire una linea di confronto con il governo, che a sua volta si è dichiarato disponibile, senza però dar alcun seguito concreto. In compenso ha lanciato una campagna propagandistica finalizzata a “spiegare” e promuovere il nuovo provvedimento, al centro del quale c’è Slobhian Brown, membro del partito Scottish National Party, che così si esprime: «Per quanti sono colpiti dall’odio e dal pregiudizio, gli effetti possono essere traumatici e cambiare la vita. Pur rispettando il diritto di ognuno alla libertà di espressione, nessuno nella nostra società dovrebbe vivere nella paura o sentirsi escluso». Si noti, in prima istanza, come l’incipit “pur rispettando…” contenga la stessa straordinaria carica di ipocrisia della formula “Non sono razzista ma…”.
In seconda istanza va registrato come proprio alle presunte vittime del presunto odio che venga messa in mano, nell’ambito della campagna di propaganda, la testimonianza di quale impatto abbia avuto l’hate speech. Ed è qui che casca l’asino. Non solo quello scozzese, ma quello che trotta per tutto il mondo occidentale. Possiamo spendere centinaia di righe e pronunciare centinaia di migliaia di parole per analizzare il conflitto tra il concetto di “hate speech” e la libertà di espressione; possiamo riflettere se può ragionevolmente essere considerato reato il registrare ed esprimere ciò che la realtà fattuale rivela (ad esempio che esistono soltanto due sessi) e purtuttavia non toccheremmo che la superficie del problema. Per arrivare alla radice (e tagliarla) serve concentrarsi sulla improcedibilità di qualunque atto che venga definito esclusivamente da chi dichiara di averlo subito.
Alla base di questo aspetto sta il “sentore”, il vissuto personale, la percezione individuale. Che hanno la loro dignità, sono meritevoli del massimo rispetto, ma non possono e non devono essere la fonte unica, e nemmeno quella privilegiata, per la definizione di una fattispecie di reato. Lasciare che sia la presunta vittima o il suo personalissimo sentore a rendere fattuale la sussistenza di un crimine significa sovvertire dalle fondamenta un intero edificio giuridico costruitosi sul consenso di grandi pensatori e su un’evoluzione del pensiero che ha le sue origini nientemeno che in epoca romana antica. Lì sta il focolaio da cui si origina tutto, nelle leggi repressive come nelle modalità di raccolta delle statistiche ufficiali.
Basta riflettere un attimo su questo sovvertimento nella fonte delle informazioni diffuse nell’opinione pubblica, e che ne influenzano l’approccio generale alle varie questioni, così come nella costruzione delle leggi, specie quelle repressive, per rendersi conto che un ritorno alla normalità, o per lo meno la strada per evitare che la civiltà occidentale si sgretoli come un castello di sabbia, passa dalla netta interruzione di utilizzare il vissuto individuale o di gruppo per definire la realtà. Di questo si sono accorti anche diversi politici e osservatori scozzesi, che al di là della già gravissima inaccettabilità di principio, da buoni anglosassoni l’hanno messa giù molto concreta: come faranno le forze dell’ordine a correre dietro a tutti quelli che si sentiranno offesi da qualcosa, ascoltarli per capire se c’è un reato e perseguire chi l’ha commesso? La prospettiva, se davvero passerà l’Hate Crime Act, è uno vero diluvio di segnalazioni che travolgerà le forze dell’ordine. E i criminali comuni ringrazieranno.
Sullo sfondo di tutto questo si staglia anche la giganteggiante figura di J.K. Rowling, residente proprio in Scozia, da tempo iper-critica in particolare verso le istanze gender e Lgbt, ma proprio per questo da tempo oggetto di feroci attacchi e denunce. Può essere una mera speculazione, ma sulla decisione del governo scozzese potrebbero benissimo aver avuto effetto le pressioni di certe lobby, che darebbero qualunque cosa per abbattere la monumentale figura della scrittrice, che con questa legge rischia concretamente di essere incriminata. Lei, in ogni caso, se ne sta e se ne starà lì, ferma e salda su una delle sue ultime dichiarazioni, risalente al 2023: «passerò felicemente due anni in prigione se l’alternativa è una compressione della libertà di parola e la negazione forzata della realtà e dell’importanza dei sessi».
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