Nepal, i soldi dei migranti sostengono l’economia. A costo di schiavitù e violenze

NEPAL_(f)_1220_-_Lavoratori_migrantidi Christopher Sharma
Con 3,2 miliardi di euro all’anno le rimesse dei lavoratori estere coprono il 24% dell’economia locale. In cinque anni oltre 2630 nepalesi deceduti in circostanze misteriose nei Paese arabi.

Kathmandu (AsiaNews) – I lavoratori migranti nepalesi sono una grande risorsa per il Nepal che grazie alle loro rimesse riescono a far fronte alla crisi economica. Circa il 24% delle entrate dello Stato è frutto delle rimesse che solo nel 2012 sono ammontate a circa 3,2 miliardi di euro. Il denaro inviato in patria contribuisce allo sviluppo delle famiglie e dello stesso Paese, ma è frutto di lavori al limite della schiavitù e spesso molti giovani emigrati perdono la vita nei Paesi ospitanti.

Secondo fonti del governo di Kathmandu i lavoratori residenti all’estero sono circa 3 milioni, ma la cifra raggiunge i 5 milioni se si aggiungono anche gli immigrati irregolari. Un rapporto del Foreign Employment Promotion Board (Fepb) e delle autorità dell’aeroporto internazionale di Tribhuwan pubblicato in occasione della Giornata mondiale del migrante, tenutasi lo scorso 18 dicembre, mostra le drammatiche condizioni di vita dei nepalesi all’estero. Ogni giorno giungono in patria almeno 3 salme di migranti morti in circostanze misteriose, mentre sono centinaia i lavoratori feriti sul lavoro che scelgono di ritornare in Nepal.

In 20 anni sono circa 7.400 i nepalesi deceduti durante la loro permanenza all’estero per lavoro. Dal 2000 si è registrato un incremento delle morti sul lavoro nei Paesi arabi musulmani: 3.500 in Arabia Saudita e 2.000 in Malaysia. In cinque anni i Paesi del Golfo e gli Stati asiatici in via di sviluppo sono divenuti una delle mete principali per migranti nepalesi, disposti a lavorare anche in condizioni di semi-schiavitù. Per il Fepb dal 2004 sono morti circa 2.630 persone emigrate nei Paesi del Golfo e nel sud-est asiatico: 736 in Arabia Saudita, 915 in Malaysia, 614 in Qatar, 215 negli Emirati Arabi, 72 in Kuwait, 47 in Bahrain e 31 in Korea. Sono invece migliaia i casi di torture e abusi a causa della fede registrati nei Paesi musulmani. Brad Adams responsabile di Human Right Watch per i Paesi asiatici sottolinea che “i Paesi del Golfo dovrebbero riconoscere il ruolo cruciale dei lavoratori stranieri nelle loro economie e prendere misure adeguate per proteggere i loro diritti e la loro incolumità”.  Il responsabile di Hrw invita anche i Paesi dell’Asia del Sud dovrebbero “dare il via a delle riforme del lavoro per porre fine agli abusi contro i migranti”.

Per l’International Domestic Workers Network (Idwn), organizzazione che riunisce i lavoratori impegnati come domestici, il sindacato International Trade Union Conferederation e Hrw, almeno il 40% dei migranti impiegati come badanti e colf subisce violenze, fra cui percosse, detenzione in schiavitù e abusi sessuali. La maggior parte sono donne provenienti da India, Nepal, Indonesia, Sri Lanka e Cambogia. In alcuni Paesi è lo stesso Stato che promuove leggi restrittive nei confronti dei diritti umani. Un esempio è il sistema della “Kafala” vigente in Qatar e in altri Paesi arabi, che obbliga il neo-assunto a consegnare il suo passaporto al datore di lavoro, che spesso usa questo potere per ricattare il dipendente. Sali Shelly rappresentante di Hrw in Qatar sottolinea “che è assurdo pensare che nei Paesi più ricchi del mondo vi siano persone che fanno la fame. Le autorità qatariote dovrebbero prendere subito dei provvedimenti”. Finora solo 25 Paesi hanno aderito a convenzioni internazionali per la protezione dei lavoratori migranti. Il Sud America ha fatto grandi passi avanti nella difesa dei lavoratori stranieri, mentre in Asia solo le Filippine hanno firmato tali accordi, che riguardano anzittutto colf, badanti e servitù domestica.

Fonte: http://www.asianews.it/

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