Non è cosa da poco l’avere davanti a noi lo stesso auspicio di Mosè che a Giosuè rispose: «Oh, fossero tutti profeti nel popolo del SIGNORE!». Sebbene soltanto per lo spazio d’un mattino, secondo Luca, è stato così: almeno all’inizio. Ma oggi?
Posto che Dio sia pensabile come Padre (come Madre…), e i credenti come fratelli e sorelle, l’immagine della famiglia per descrivere la chiesa viene automatica. Come tutte le metafore, anche questa ha i suoi limiti, ma può aiutarci a visualizzare alcuni aspetti sui quali, ogni tanto, conviene tornare. Mosè appare qui come una persona stanca.Sin dall’inizio, ebbe esitazioni davanti al ruolo affidatigli dal Signore, ma l’uomo che nell’Esodo discute quasi alla pari con Dio per salvare Israele nell’episodio del vitello d’oro (Esodo 32), ora è arrivato al limite. «Perché non ho trovato grazia agli occhi tuoi, e mi hai messo addosso il carico di tutto questo popolo? L’ho forse dato alla luce io, che tu mi dica: «Portalo sul tuo seno»? (…) Io non posso, da solo, portare tutto questo popolo; (…) ti prego; uccidimi, se ho trovato grazia agli occhi tuoi; che io non veda la mia sventura! » (Numeri 11, 11; 12, 14-15). Forse è il riemergere di una mai vinta resistenza verso un compito gravoso e indesiderato; forse è il normale momento di crisi che colpisce anche le persone più salde; o forse non ne può semplicemente più di uomini e donne che sembravano non imparare mai dai loro errori… Per quanto fossero la sua gente, alla fine non erano mica i suoi figli! Semmai, come creature in generale e come popolo del patto in particolare, erano figli e figlie di qualcun Altro. Mosè sembra vedersi come una balia alla quale viene sbolognato il neonato, mentre la vera madre, dopo aver partorito, riprende la vita di tutti i giorni; solo che qui «il neonato» è un popolo intero.
La risposta di Dio è spiazzante
La risposta di Dio è spiazzante. Non consola Mosè («Poverino… »), non lo riprende («Come ti permetti? »), non lo contraddice («Vedi, devi capire che… ») ma gli comunica la soluzione, tanto più pragmatica nel suo essere frutto di un intervento divino. «Radunami settanta fra gli anziani d’Israele, conosciuti da te come anziani del popolo e come persone autorevoli; (…) prenderò lo Spirito che è su te e lo metterò su di loro, perché portino con te il carico del popolo e tu non lo porti più da solo» (Numeri 11, 16-17). Potrebbe sembrare l’uovo di Colombo – e in parte lo è – ma… bisognava pensarci! Ci sono cose che non possiamo, non sappiamo, dirci da soli. Mosè ha bisogno di aiuto ma, come tanti credenti, se lo aspetta direttamente dal cielo, quando invece è lì sotto i suoi occhi, a portata di mano. Proprio gli anziani di quel popolo che è la fonte dei suoi problemi, sono coloro che possono condividere la sua responsabilità. Questi hanno già una loro autorità, ma non è sufficiente. Non si devono istituzionalizzare dei «capetti di fatto» o creare una burocrazia amministrativa. Si tratta, invece, della condivisione da parte di Mosè di un’autorevolezza, di una capacità di discernimento e di una saggezza, dei quali egli non dispone. Li ha, ma non per merito suo: sono un dono. Può usarli, e li ha usati, ma non può condividerli, esattamente come un campione di scacchi non può condividere la propria maestria, ma solo insegnare le regole e le strategie del gioco.
Chi sia Dio, che cosa abbia fatto e che cosa desideri – lo sapevano anche gli ebrei
Chi sia Dio, che cosa abbia fatto e che cosa desideri – lo sapevano anche gli ebrei. Tuttavia, saper parlare di Dio non significa automaticamente conoscerlo: anche un ateo può laurearsi in teologia. Mosè poteva parlare della sua conoscenza dell’Eterno, testimoniare la sua fede in lui, ma non donarla. Questo è possibile solo allo Spirito. Bastò un po’ dello Spirito che era su di lui per rendere addirittura profeti settanta uomini! Come avvenne nel giorno di Pentecoste raccontato nel libro degli Atti, come è avvenuto poi innumerevoli volte nel corso dei secoli. Quando lo Spirito scende su una persona, si accende la scintilla della fede: e questa comprende ciò che il Signore ha fatto per lei, impara il timore dell’Eterno… Mosè quindi, la guida della famiglia di Israele, non è più «un uomo solo al comando». La responsabilità di essere luce della sua gente è ora collegiale – verrebbe da scrivere: comunitaria.
Grazie allo Spirito, le persone ri-nascono e questo miracolo rende sempre lieti e meravigliati
Grazie allo Spirito, le persone ri-nascono e questo miracolo rende sempre lieti e meravigliati quelli che vi assistono. Al Dio genitore che crea la fede e genera nuovi credenti, si affianca la famiglia della chiesa, che è levatrice e balia. Conosciamo tutti la scena di un intero clan riunito per festeggiare il ritorno a casa della madre con il neonato. Tutti a fare lodi e complimenti, a trovare somiglianze, a felicitarsi… Almeno all’inizio, o almeno il giorno della confermazione o del battesimo – non dovrebbe essere così? E nella chiesa non dovrebbero esserci sempre «nonni, zii, cugini e parenti tutti»? Non padri (né madri) spirituali, ma fratelli e sorelle più anziani nella vita di fede e coetanei con i quali intraprendere l’avventura di questo cammino, accanto ai quali cadere e con l’aiuto dei quali rialzarsi?… Dovrebbe. Ma a volte capita che la chiesa sia, in negativo, proprio come una famiglia: ossia, il luogo dell’indifferenza, del sospetto, dell’invidia e della meschinità. I credenti (vecchi e nuovi) scoprono di non avere accanto parenti amorevoli, ma persone indifferenti e distanti, quando non vere e proprie matrigne degne di Cenerentola. Che ruolo potremmo assegnare, per esempio, al Giosuè che incontriamo nel nostro passo? Il riconoscimento da parte di Mosè del carisma profetico di Eldad e di Medad, davanti alle obiezioni di Giosuè, servirà pure – a posteriori – a proteggere l’indipendenza del ruolo profetico. Ma denuncia anche chiaramente, purtroppo, come all’interno del popolo di Dio, di zelanti sostenitori del primato del cavillo come grimaldello per ottenere un controllo ferreo, ce ne sono sempre stati. Anche là, come in questo caso, dove meno ce li si aspetterebbe. I due ebrei rimasti nel campo, infatti, profetizzarono per opera dello Spirito Santo, non di loro iniziativa. E se allo Spirito stette bene così, chi era Giosuè per criticare? Chi siamo noi? Cioè, lo sappiamo benissimo chi siamo noi, ma stendiamo un velo pietoso…
A fronte di tutto ciò, dovremmo chiederci se non potrebbe essere la capacità di amarci gli uni gli altri come una vera famiglia
A fronte di tutto ciò, dovremmo chiederci se non potrebbe essere la capacità di amarci gli uni gli altri come una vera famiglia, il primo e fondamentale elemento distintivo di una comunità! Nessuno desidera essere ospite a cena di una famiglia che litiga, ma tutti siamo lieti di trascorrere del tempo con persone che vanno d’accordo. Il nostro volerci bene e il nostro prenderci cura gli uni degli altri, ovviamente, non potranno mai sostituire l’amore di Dio, ma capita che il Signore possa servirsi anche del nostro amore imperfetto per far crescere forti e sani i suoi figli e le sue figlie. Non è cosa da poco, e si comprende la crisi di scoraggiamento che ebbe Mosè. Allo stesso tempo, ma per il motivo opposto, non è cosa da poco nemmeno l’avere davanti a noi lo stesso auspicio di Mosè, che a Giosuè rispose: «Oh, fossero pure tutti profeti nel popolo del SIGNORE, e volesse il SIGNORE mettere su di loro il suo Spirito! » (Numeri 11, 29). Sebbene soltanto per lo spazio d’un mattino, secondo Luca, è stato così: almeno all’inizio. Ma oggi?
Tratto da: http://www.riforma.it/
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