Per una medicina più sensibile

Qualche giorno fa, al grande Nosocomio di Napoli, un 24 enne, studente di medicina, si è suicidato e nel giro di meno di un mese altri due casi di suicidio. Non sto a dire del mio grosso e personale dispiacere perché conoscevo per diretta persona uno dei casi. Un giovane che non ha mai chiesto con arroganza niente, un giovane dal nutrito rispetto per gli altri e responsabile verso il proprio dovere. Insomma non per dire per partito preso, “una perla di ragazzo”. Ma rispetto ad un gesto infausto è dovere di tutti chiedersi cosa passi nella mente di una persona che, nonostante assistito in luogo protetto e attento alla salute, non coglie segnali e segni di un gesto che si cova dentro i più segreti moti dell’anima e della psiche. Mi addolora il sapere e pensare che un ammalato possa essere un numero clinico e non una persona con una mente e una propria spiritualità che va ascoltata, capita, aiutata ad elaborare quanto ancora gli rimane della vita. Non può essere complice il covid-19 che tiene lontani i familiari dai reparti per salvaguardia della salute fisica; ma alla salute interiore chi ci pensa?  In fondo un ammalato è, dal punto di vista psicologico, in fase di regressione psicologica dove il senso dell’affettività, dell’amore dei propri cari, dell’ascolto del cuore riveste ancora un ruolo fondamentale nella economia della sopportazione di un dolore e di una diagnosi infausta. Quel ragazzo lo conoscevo bene, aveva un senso della famiglia lodevole e quella famiglia non ha potuto, nonostante del settore e vaccinati e in continua controllo, essere visivamente presenti per tutela da covid-19. Di sicuro ogni gesto infausto ha sempre il suo senso quando si percepisce il limite, di quanto non si trovano risposte del perché di tanto proprio dolore. In questi casi è umano invocare la fine come lo ha desiderato Giobbe ed Elia. E’ il caso di Giobbe che provato dal dolore invoca la morte (Gb 12,4-5; 13,4-13) e di Elia che frustrato, spaventato e stanco chiede al Signore di morire (1 Re 19,4). Per entrambi però il Signore ha in serbo un altro progetto.  Mi chiedo, da psicologo e psicoterapeuta, può essere di aiuto stimolare alla conoscenza di un altro progetto quando la propria vita è costellata da dolore e il pensiero è orientato alla fine? E cosa contribuisce a rendere la vita senza progettualità? Credo influisca anche il come viene comunicata una diagnosi infausta. E’ vero che un paziente deve avere chiarezza del suo stato ma la chiarezza deve sempre essere accompagnata ad una imprevedibilità della vita che solo Dio può incidere. Dire, ad esempio ti resta poco tempo per vivere è diverso dal dire in questo tempo possiamo fare, tentare, stimolare, dare un senso insomma agli ultimi istanti che restano. E questo significa non guardare solo alla malattia ma alla persona nella sua triplice dimensione, fisica, psicologica e spirituale. Il che vuol dire stimolare quell’atteggiamento di senso che lo psichiatra V.E Frankl ha parlato, a partire dagli anni 50, definendo la sua una psicoterapia del senso della vita (Logoterapia). Un supporto psicologico che considera l’autotrascendenza, quale capacità solo ed esclusivamente umana di andare oltre il proprio dolore, oltre il proprio dramma senza il quale ogni dolore diventa zavorra, peso insopportabile. La medicina non può considerare l’uomo senza la sua psiche e soprattutto il suo spirito, perché questo significherebbe la fine dell’uomo e di Dio. Addolora pensare e constatare, dai fatti di cronaca, che nella sanità la considerazione è all’uomo fisico. Non posso pensare che nei grandi nosocomi non vi sia una pluralità di approcci dove l’uomo non è solo fisico, diversamente non ha senso il servizio di psicologia ospedaliera né tanto meno la figura del cappellano che non serva solo alla estrema unzione, né dei tanti volontari che portano un momento di conforto.

Pasquale Riccardi

Ti è piaciuto l'articolo? Sostienici con un "Mi Piace" qui sotto nella nostra pagina Facebook