Repubblica Centrafricana: “guerra e pace”

A 20 giorni dalla presa di Bangui da parte del gruppo di opposizione Séléka, nato dal “matrimonio” (Séléka in sango significa anche questo) di più gruppi contrari alla politica dell’ex presidente Francois Bozizé, fuggito in Camerun, la vita nella capitale della Repubblica Centrafricana sta gradualmente tornando alla normalità e la presenza militare è diminuita, anche se le forze di Séléka continuano a occupare le rotatorie e le strade principali della città. L’auto-proclamato Presidente della Repubblica Centrafricana Michel Djotodia ha nominato un Primo ministro e ha annunciato la formazione di un governo di transizione formato per metà da rappresentanti della società civile, dove però lo stesso Djotodia, leader dei ribelli del movimento Séléka, assumerà anche l’incarico di Ministro della Difesa. Nonostante la “normalizzazione”, la situazione rimane instabile, molte Ong come il Coopi, nel paese dal 1974, sono state evacuate da fine marzo, l’accesso all’assistenza sanitaria è limitato da strutture mediche sotto organico, più di 600 mila bambini per l’Unicef sono stati a vario titolo coinvolti nel conflitto (anche come minori soldato) e l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati ha registrato nelle ultime due settimane nuovi arrivi di profughi centroafricani in Ciad, Camerun e Repubblica Democratica del Congo. “Si sentono meno spari per le strade.

La gente dalla scorsa settimana ha iniziato a uscire in strada. In alcune zone, hanno riaperto bancarelle e piccoli mercati, permettendo così il rifornimento di alimenti freschi e beni di prima necessità. Tuttavia, i prezzi sono raddoppiati” ha dichiarato Medici Senza frontiere (Msf), una delle poche ong rimaste nella capitale. “I grandi magazzini, i supermercati e le stazioni di servizio nel centro di Bangui sono ancora chiusi, anche quelli che non sono stati saccheggiati. L’insicurezza rimane un problema dopo il tramonto. La gente ha paura e non osa uscire per le strade dopo le sette di sera”.

Durante il fine settimana di Pasqua, le forze del Seleka hanno preso il controllo anche della città di Paoua, a nord ovest di Bangui, dove l’organizzazione di medici ha un progetto. “Si sono verificati focolai di violenza, ma la situazione in città ora si è stabilizzata – ha spiegato Msf – e le nostre équipe stanno riprendendo le loro attività a Paoua come nella periferia di Kabo, Batangafo e Ndélé, a nord-est di Bangui e continuano a fornire assistenza medica in un progetto a Zemio, nel sud-est”. “I combattimenti nella capitale erano iniziati venerdì 22 marzo e per alcuni giorni non abbiamo potuto fare nulla, nessuno poteva essere ricoverato in ospedale, e questa situazione è durata per un paio di giorni”, ha dichiarato Serge St-Louis, capo missione di Msf a Bangui. “Poi da lunedì 25 marzo, abbiamo portato del materiale sanitario e farmaci al Bangui Community Hospital”, l’unico ancora in funzione nella capitale della Repubblica Centroafricana con il Centro pediatrico a Bangui, dove dal 6 aprile opera anche il team chirurgico di guerra di Emergency. Nonostante le pessime condizioni, Msf ha effettuato circa 40 interventi chirurgici su pazienti in condizioni critiche. In 10 giorni, 341 pazienti sono stati ricoverati in ospedale.

Nei primi giorni del conflitto, la maggior parte dei pazienti presentava ferite da arma da fuoco, ma le equipe di Msf al momento stanno curando principalmente vittime di incidenti stradali. “Nei prossimi giorni concentreremo i nostri sforzi sui centri di salute a Bangui e nella periferia della città”, ha dichiarato la capo missione Sylvain Groux. “La nostra priorità per le settimane a venire sarà far funzionare e pieno ritmo il reparto chirurgia e monitorare i pazienti nel reparto post-operatorio”. Contemporaneamente anche il team di chirurgia di guerra di Emergency ha iniziato a operare al Complexe pédiatrique. “Il primo a entrare in sala operatoria è stato un ragazzo di 16 anni con una pallottola nella mano, la seconda una ragazzina di 14 anni ferita a una coscia. 
Intanto il Centro pediatrico ha ripreso i ritmi di sempre: stamattina abbiamo ricevuto cento bambini per il triage” ha dichiarato l’organizzazione di Gino Strada. Intanto in città “stanno ancora arrivando feriti, bambini e adulti, che hanno bisogno di essere operati: gli ospedali della capitale non hanno chirurghi, attrezzature, né farmaci per far fronte ai loro bisogni”. Ma non solo l’ambito sanitario presenta delle criticità.

Per Benedetta Di Cintio, cooperante di Coopi in Repubblica Centrafricana per progetti di sviluppo rurale integrato, “l’evacuazione da Bangui di tutto lo staff di Coopi ancora sabato 23 marzo e la tempestiva riparazione fuori dai confini dello Stato, ha potuto salvare i beni principali dell’associazione: gli archivi e i documenti di lavoro che ci permettono di continuare ad essere operativi da Betou, una cittadina accogliente sulle sponde del fiume l’O bangui che separa il Congo Brazzaville dalla Repubblica Centro Africana e dalla Repubblica Democratica del Congo”. “Quando la città è stata presa – ha continuato la Di Cintio – i nostri colleghi di altre Ong sono stati saccheggiati e minacciati dai ribelli. Racconti di fucili puntati sulle scarpe, corpi stesi sul pavimento mentre gli altri tutt’intorno rubano e distruggono anni di lavoro e di passione […] Ora le ultime notizie che riceviamo descrivono una situazione ancora instabile. Tutti speravamo che dopo la presa di Bangui e i vari saccheggi un minimo di ordine fosse tornato. Forse tutti, nella speranza di poter ritornare e ricominciare, abbiamo falsamente creduto alle promesse annunciate dai media. Ma non è ancora così”. I cooperanti di Coopi non sono certo gli unici rifugiati centroafricani il cui numero è arrivato a 37mila persone che, dall’inizio del conflitto lo scorso dicembre, sono fuggite verso gli altri stati della regione.

Per l’Unchr “I rifugiati provengono soprattutto dalla capitale Bagui, ma anche dalle città di Bangassou, Rifai e Zemio, nelle regioni sud-orientali del paese, e sono fuggiti principalmente verso il nord della Repubblica Democratica del Congo (30.876), come anche in Ciad (5.600) e in Camerun (1.024). Le loro necessità sono ingenti: molti hanno lasciato le proprie case in fretta e non hanno potuto portare con sé i propri averi. Spesso non hanno un posto dove dormire, talvolta hanno trovato una sistemazione presso famiglie locali, esse stesse in condizioni di estrema povertà”. Ma non si tratta di una situazione nuova ha precisato l’Unchr. “Prima del colpo di stato i rifugiati centrafricani nei paesi limitrofi erano già 187.889, dei quali 87.092 in Camerun, 70.664 in Ciad, 29mila nella RDC e 1.143 in Sud Sudan. Si tratta principalmente di persone fuggite da anni di guerre, pace e nuove violenze da parte dei gruppi armati, attivi soprattutto nel nord del paese”. Ora in tutti e tre i paesi interessati dall’afflusso di rifugiati l’Unchr collabora con le autorità per garantire loro protezione e assistenza.

I team di operatori dell’Agenzia attivi nella regione sono impegnati nella registrazione dei rifugiati, nella distribuzione degli aiuti, nell’allestimento di alloggi d’emergenza e in collaborazione con altre agenzie umanitarie nell’assistenza sanitaria e nell’istruzione, con la speranza che l’emergenza politico-militare rientri. La linea generale è quella di una permanenza a Bétou ancora di qualche giorno e di un possibile rientro a Bangui, ma su come e quando non si fanno ancora previsioni” ha concluso la Di Cinto.

Ti è piaciuto l'articolo? Sostienici con un "Mi Piace" qui sotto nella nostra pagina Facebook