
Un paio di settimane fa l’Amministrazione Autonoma della Siria del Nord-Est (Rêveberiya Xweser a Bakur û Rojhilatê Sûriyey) aveva sottoscritto un accordo con Aḥmad Ḥusayn al-Sharaʿ(già al-Jūlānī), principale esponente del nuovo governo in Siria, sostanzialmente costituito dalla coalizione islamista Hayat Tahrir al-Sham (HTS, in passato membro dello Stato islamico e di Al-Qaïda).
Un impegno che prevedeva l’integrazione delle proprie istituzioni nello Stato siriano (nel quadro di un generale processo di ricomposizione e unificazione del Paese).
Ma al momento le cose non sembrano andare nel verso giusto e gli accordi potrebbero risultare lettera morte. Tanto che i curdi (15% della popolazione in Siria) vanno già esprimendo perplessità e muovendo critiche.
In particolare – per ora – sulla dichiarazione costituzionale che attribuisce al presidente i pieni poteri almeno per cinque anni.
Ed è l’Amministrazione autonoma stessa che – il 30 marzo – ha contestato la legittimità del governo annunciato perché “assomiglia troppo al precedente (quello di Assad nda), in quanto sembra non tener conto della diversità siriana”.
“Un governo – prosegue il comunicato – che non rifletta la diversità e la pluralità del paese non potrà gestire correttamente la Siria”.
Per cui “noi non ci sentiamo coinvolti nell’applicazione e nell’esecuzione delle decisioni di questo governo”.
Un comunicato che appariva come l’immediata risposta al discorso pronunciato il 29 marzo da Ahmad al-Chareh con cui ribadiva la volontà di “edificare uno Stato forte e stabile”.
In realtà i vari ministeri sono in larga maggioranza in mano agli arabi sunniti (e a quanto pare molti posti chiave ai familiari di Ahmad al-Chareh). Ci sarebbe anche un ministro curdo, ma – non certo casualmente – è stato scelto al di fuori del Rojava.
Gianni Sartori
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