Siamo diventati meno sociali

cellulare1Perché continuiamo a controllare i telefoni cellulari? Tra narcisismo e voglia di comunicare, una riflessione sulla spiritualità del quotidiano.

(Jeff Vogel) Non è facile commentare una transizione culturale mentre la si sta vivendo. Ma non si può negare che l’uso che facciamo dei social media sta trasformando le nostre vite. I critici hanno spesso dato l’allarme: stiamo diventando meno sociali. Siamo disimpegnati a livello civico. Siamo più superficiali, ci divertiamo con niente e siamo consumatori e fornitori indiscriminati di informazioni.

Siamo narcisisti
Condivido molte di queste preoccupazioni. Dall’altro lato prendo anche sul serio chi si chiede: “È qualcosa di nuovo?”, o ci sostiene che “il coinvolgimento nella rete sociale porta semplicemente alla luce le inadeguatezze personali che sono state sempre presenti, ma che un tempo erano note solo ai nostri amici intimi”.
Vale la pena anche far notare che le affermazioni di critici allarmati possono essere contestate. Chi definisce come si dovrebbe presentare la socializzazione? E i social media non si sono dimostrati utili in momenti chiave, nella rivoluzione egiziana del 2011, per esempio, o a Hong Kong per difendere la libertà di parola?
Un comportamento tipico dei nostro rapporto con i nuovi media è il fenomeno del “controllo compulsivo”. In The Lost Art of Reading (“L’arte perduta di leggere”) David Ulin afferma: “Posso controllare la mia e-mail in un attimo e venti, trenta volte al giorno e lo faccio. Che cosa cerco? Qualcosa, tutto, un modo di essere sempre aggiornati… non importa. Guardare è fine a se stesso”.

Guardiamo per guardare
L’atto di controllare e-mail, Facebook, i titoli, è generalmente breve; in effetti giustifichiamo la frequenza con cui controlliamo i nostri dispositivi citando il poco tempo che ciò richiede. La stessa parola controllare, non impegnativa e informale, è un argomento a nostro favore, anche se diciamo spesso: “Sto solo controllando” per chiarire meglio il concetto.
Noi che stiamo attaccati ai nostri dispositivi dovremmo chiederci: che cosa continua ad attirarci verso di essi? Guardiamo tanto per guardare? Vorrei suggerire che in aggiunta al semplice desiderio di guardare siamo alla ricerca di interruzioni. Creiamo un evento quando non ce n’è perché vogliamo che succeda qualcosa, qualsiasi cosa. È senza dubbio una mania di poco conto, ma ha implicazioni per la vita di fede, in particolare per la vita di preghiera.

Social media e fede
Evagrius, monaco del quarto secolo che viveva nel deserto egiziano, dà nel Praktikos un’idea di ciò che intendo. Noto per la sua acuta diagnosi di malattie spirituali, Evagrius fornisce un resoconto degli otto “pensieri” che tormentano la persona consacrata a una vita di preghiera e che alla fine sono stati riconfigurati e sono noti in Occidente come i sette peccati capitali. Uno, l’accidia, era personificato da Evagrius come il “demone di mezzogiorno” (Salmo 91,6) perché la sua forza era sentita dai monaci soprattutto a mezzogiorno, quando il sole del deserto era al suo apice. Evagrius descrive il demone: “Prima di tutto fa sembrare che il sole si muova a malapena, se mai si muove, e che il giorno duri cinquanta ore. Poi costringe il monaco a guardare continuamente fuori della finestra, a uscire dalla cella, a osservare attentamente il sole per stabilire quanto manca all’ora nona, a guardare da una parte e dall’altra per vedere se magari [uno dei suoi confratelli appare dalla sua cella]”.

Ossessionati dal tempo
Questo demone è scaltro e tenta il monaco non tanto con un peccato materiale, quanto ricordandogli tutto il tempo che deve dedicare alla sua vocazione, la natura perennemente incompiuta del suo compito e la sua mancanza di progressi verso l’obiettivo. Secondo Evagrius questo pensiero crea più problemi di tutti perché mette in discussione tutta la vita del monaco e attenta alla sua determinazione concentrando la sua mente sulla richiesta senza fine: dopo questo momento ci sarà ancora tempo. E dopo, altro ancora. La conseguenza è uno schiacciante senso di inutilità che il monaco è tentato di alleviare. Paradossalmente, il suo confronto con il tempo genera una ossessione per il tempo. Scruta continuamente fuori della finestra, cercando qualsiasi cosa che possa richiedere la sua attenzione. In sintesi, cerca una interruzione.

Quando arriva una mail
Il consiglio della tradizione spirituale cristiana riguardo all’accidia è sempre stato quello di alzarsi e combattere. Considerato che l’accidia è fondamentalmente la tentazione di fuggire dalla lotta spirituale stessa, nessun altro consiglio sarebbe davvero adeguato. A differenza dei pensieri di lussuria e di cupidigia, la cui presa può essere indebolita allontanandosi dalle fonti di tentazione, questo pensiero istiga il desiderio di allontanare sé stessi. Incita l’individuo a spostarsi altrove, a non resistere più, a non rimanere.
La descrizione dell’accidia torna utile quando pensiamo alle nostre abitudini. Che cosa ci costringe a reagire così di colpo al suono che ci avvisa dell’arrivo di una mail, alla vibrazione che accompagna l’arrivo di un messaggio o alla vista di una nuova notifica? Spesso è come se aspettassimo l’interruzione, persino tenendoci pronti ad accoglierla.

Perseverare nell’attesa
C’è qualcosa nel desiderio di interruzione del monaco nel nostro guardare. La differenza, ovviamente, è che noi abbiamo le occasioni di interruzione a portata di mano. Evitiamo la disperazione e qualsiasi esperienza di lotta perché possiamo crearele interruzioni ogni volta che lo vogliamo. Ci sarà sempre un evento nella timeline di qualcun altro, e da qualche parte sta sempre succedendo qualcosa.
La maggior parte di noi non ha ciò che serve per essere padri o madri del deserto. Ma questi uomini e donne non sono così estranei alla nostra esperienza come potremmo pensare: ci mostrano, in modo insolitamente marcato, la lotta di ogni persona che vive davanti a Dio. È compito di ogni cristiano, monaco o no, perseverare nella preghiera (Romani 12,12; 1 Tessalonicesi 5,17). Gli scrittori spirituali come Evagrius sostengono che la nostra capacità di pregare è compromessa quando prendiamo l’abitudine di cercare l’interruzione e di staccare. Perché?

Preghiera come attesa
Il problema con la preghiera è che è spesso caratterizzata dal non fare assolutamente nulla. Spesso è più come un atto di attesa, non mera passività, ma un atteggiamento dinamico in cui l’individuo deve essere aperto e ricettivo nei confronti di Dio. Coloro la cui vita è consacrata alla preghiera, come i mistici spagnoli del 16. secolo, testimoniano di lunghi periodi di preghiera in cui non accade  nulla di significativo. Come per il monaco alle prese con l’accidia, questi scrittori osservano che chi prega deve resistere in questi periodi. Non c’è modo di aggirarli.
Per la maggior parte di noi la preghiera ha luogo a un livello molto più basso rispetto a quello dei mistici. Ma il modello rimane lo stesso. Il destino della preghiera, in particolare della preghiera contemplativa, è connesso con quest’idea di aridità. Se intendiamo l’attesa di Dio solo come assenza di azione o perdita di tempo e non come un atteggiamento che dobbiamo adottare e mantenere, la preghiera diventa difficile. Diventa impossibile se siamo abituati a cercare interruzioni o eventi artefatti. (da Christian Century; trad. it. G. M. Schmitt; adat. L. Nitti)

Da: Voceevangelica.ch

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