Per il commissario alle bonifiche Mario De Biase parlare di bonifica del territorio è fuori luogo. “Al massimo si può parlare di messa in sicurezza” spiega. Provare, insomma, a salvare il salvabile. Intanto si riprende a scavare dopo le dichiarazioni – discutibili per modi, per tempi e per lo stesso personaggio criminale – di Carmine Schiavone. O forse sarebbe meglio dire che gli scavi, i sequestri, le macabre scoperte non si sono mai fermate in una regione dove il personale addetto al contrasto dei reati ambientali è drammaticamente sotto organico.
La campagna StopBiocidio nata circa un anno fa oggi vede centinaia di persone tra le province di Napoli e Caserta animare i comitati, dare vita a manifestazioni, contestazioni, mobilitarsi dal basso per le bonifiche, per un piano di emergenza sanitaria contro tumori e malformazioni, per impedire che nuovi mostri, come l’inceneritore che la giunta Caldoro vorrebbe costruire a Giugliano, sorgano in una terra già devastata.
Lo “stato dell’arte” del territorio campano è senza ombra di dubbio sotto gli occhi di tu. Non c’è bisogno di nessun “guru”, nessun grande giornalista d’inchiesta, nessun brillante politico e nemmeno il Saviano di turno che ce lo dica.
Siamo davanti ad un biocidio, ovvero una pressione degli agenti inquinanti sull’ambiente così forte da minare il patrimonio genetico di 6 milioni di persone.
Ma cosa si può fare?
Secondo l’ISDE – Medici per l’ambiente, attraverso una intelligente spesa pubblica per un periodo tra i 5 ed i 10 anni finalizzata al recupero dei terreni agricoli attraverso coltivazioni particolari si potrebbe arrivare ad un ripristino accettabile del territorio. Secondo altri invece i costi sarebbero insormontabili. Miliardi e miliardi di euro che lo Stato non ha e non avrà. Resterebbe in ogni caso il tema di dove smaltire le circa 25 milioni di tonnellate di veleni tossici interrati in Campania.
Ma è un problema solo nostro?
La fotografia appena descritta nasconde un rischio: quello della etnicizzazione e della geolocalizzazione del problema inquinamento nel nostro paese. Per la maggior parte degli italiani i veleni interrati, i fumi tossici, l’aumento dei tumori, sono problemi dei napoletani…o al massimo dei tarantini che vivono all’ombra dell’Ilva.
Il 27 settembre prossimo uscirà nelle librerie “Il paese dei veleni” un volume pubblicato da Round Robin Editore e curato da me e dalla collega tarantina Andreina Baccaro. Un volume, frutto di circa un anno di inchieste, storie di veleni, esperienze vissute in presa diretta tra inquinamento, bonifiche – truffa e uomini e donne stroncati da tumori e leucemie. Il tentativo è quello di contestualizzare il dramma dell’inquinamento nel nostro paese seguendo la storia industriale italiana. Una storia che ci racconta come i capitani d’impresa, dagli anni 50 ad oggi, abbiano scientificamente scarificato salute ed ambiente al profitto. Non contenti, anche quando i disastri sono venuti alla luce, grazie alle mobilitazioni dei cittadini oppure grazie a qualche inchiesta giudiziaria, anche sulle bonifiche, imprenditori, funzionari pubblici e politici non hanno esitato a sacrificare per una seconda volta il territorio e la salute delle persone nel nome dell’arricchimento personale. Un fenomeno che non è affatto tutto napoletano o tarantino. Dalle diossine di Brescia all’amianto della Toscana, dai rifiuti di Roma agli inquinamenti transnazionali, passando per la Sicilia, il Veneto, il Friuli Venezia Giulia, “Il paese dei veleni” prova a scoprire il vaso di Pandora dei veleni del nostro paese. Un lavoro reso possibile anche grazie al contributo di diversi colleghi che, come noi, spendono una parte significativa del loro lavoro a denunciare lo stupro del territorio e l’avvelenamento delle comunità. A Bendetta Argentieri, Alessio Arconzo, Amalia De Simone, Stefania Divertito, Paolo Gorlani, Giuseppe Manzo e Nello Trocchia, nel volume è stato dato il compito di raccontare le storie dai territori.
Paradossalmente proprio quelle zone maggiormente sotto i riflettori, come la Campania e la Puglia, hanno un vantaggio: noi sappiamo dove viviamo.
Siamo sicuri che il resto degli italiani lo sanno?
O si è ancora illusi che il problema è di qualcun altro?
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