Svizzera: da donna a donna fino al rimpatrio

kaz1Eveline Hügli visita donne che aspettano, nella prigione di Berna, di essere rimpatriate. Sta loro accanto quando provano rabbia, tristezza e incertezza. Un ritratto.(Susanne Leuenberger) “Entro nella stanza. Ci sediamo una di fronte all’altra, ascolto, parlo, faccio domande. Dopo un’ora lascio la stanza. Non ho idea di che cosa ne sarà di quella donna.”

Una visita al mese
Eveline Hügli ha poco più di 30 anni ed è politologa. Un giovedì al mese lei, che afferma di viaggiare tanto e volentieri, si reca nella prigione regionale di Berna, situata vicino alla stazione. Da ormai sette anni Eveline visita le donne che aspettano il loro rimpatrio: “Sono privilegiata perché sono svizzera. Vorrei prendere parte al destino di queste donne, che hanno una vita più difficile della mia solo perché di origini diverse.”
Le visite sono un’offerta del Centro d’accompagnamento ecclesiastico per chi sta subendo misure coercitive. Vedere qualcuno è una delle poche libere decisioni che le donne in prigione in attesa di rimpatrio possono prendere.

Bisogno di parlare
La sera prima della visita Eveline Hügli viene a sapere il nome e il luogo di provenienza delle donne che potrà visitare, e se parlano tedesco, francese, inglese o unicamente una lingua mongolica o amarica. “Capita ogni tanto di dover comunicare anche senza parole con gesti, schizzi o tramite l’utilizzo di pittogrammi. Lo scambio d’informazioni funziona sempre, in un modo o nell’altro.” Le detenute hanno tanto da raccontare: perché sono finite in prigione, se hanno figli che hanno lasciato a casa, i timori e l’incertezza riguardo al rimpatrio. Ma anche lo sconcerto nel ritrovarsi in una prigione, cosa che capita solo a dei criminali. Per le donne è spesso difficile comprendere il motivo per cui sono finite dietro alle sbarre.

Sconcerto, rabbia, tristezza
Queste donne provengono da paesi diversi, alcune finiscono in Svizzera dall’Etiopia o dalla Nigeria come richiedenti d’asilo, altre come bambinaie illegali, badanti o prostitute dalla Romania o dalla Bulgaria. Molte non hanno più una famiglia, altre provengono dall’Europa dell’est e si trovano in Svizzera per guadagnare qualche soldo da mandare ai figli. Hügli è per molte di loro l’unico contatto con il mondo esterno. “Non porto un’uniforme. Non mi interessa se la mia interlocutrice mente o mi dice la verità. Mi interesso della persona.”
Durante le visite affiorano molte emozioni: le donne piangono, mostrano rabbia e impotenza. Spesso si trattano però anche questioni pratiche legate alla vita quotidiana in prigione. La detenuta ha biancheria intima di ricambio? Necessita di bende igieniche? Sta bene di salute? “Alcune si spogliano durante il colloquio e mi mostrano le loro ferite.”

Ascolto e accompagnamento
Eveline Hügli visita fino a quattro donne in un giovedì pomeriggio. Si ricorda di una nigeriana che ha attraversatp il Sahara ed è finita in Italia. All’arrivo è stata obbligata a prostituirsi e minacciata. Fuggita in Svizzera, è stata arrestata perché priva di permesso di soggiorno. “Mi trovo di fronte a una donna che aspetta di essere riportata in Italia e che ha paura di ricadere nel giro della tratta di esseri umani”.
Il ruolo di Eveline è quello di ascoltatrice. “Non posso modificare la situazione di vita di queste donne. Come non posso mettere in questione la politica svizzera sulla migrazione. Cerco di focalizzarmi sul presente.” A volte funge da intermediario tra le detenute e le guardie di sicurezza, alle quali trasmette le richieste delle detenute.
Molte donne sperano tuttavia in un aiuto maggiore da parte di Eveline. “In tal caso devo essere molto chiara. Non do il mio numero di telefono. Ma do loro il numero dell’avvocato del Centro d’accompagnamento.” Le detenute hanno la possibilità di farsi consigliare dal punto di vista giuridico.

Un caso disperato
Recentemente Eveline ha fatto visita a una giovane siriana incarcerata con la madre. Le due donne dovevano essere respinte verso l’Italia. “Non ce la faccio più”, ha confidato la giovane che si era assunta tutta la responsabilità nei confronti della madre malata durante la fuga. “Già una volta siamo rimaste per le strade di Roma per settimane. Un’altra situazione del genere mia madre non è in grado di affrontarla. Preferisco suicidarmi”. Di fronte a quella situazione, Eveline ha avvertito le guardie di sicurezza. “Di più non posso fare”, ammette.
Per prepararsi al suo servizio, Eveline Hügli ha seguito una formazione continua. “Ho imparato come posso prendere parte alle sofferenze di queste donne senza rimanere io stessa schiacciata dal peso delle loro vicende.” Nonostante la situazione sia disperata, Hügli crede nella forza delle donne: “Hanno raggiunto la Svizzera in situazioni surreali. Alcune stanno peregrinando da anni, senza avere un posto dove restare. Tutto ciò è inimmaginabile, ma dimostra anche la forza di volontà e la resistenza delle donne.”

Il Centro d’accompagnamento per chi sta subendo misure coercitive
Dal 1998 nel Canton Berna esiste il Centro d’accompagnamento ecclesiastico per chi sta subendo misure coercitive (Kirchliche Anlaufstelle für Zwangsmassnahmen KAZ). Esso si impegna per un’accoglienza dignitosa degli stranieri che aspettano in prigione il loro rimpatrio. Offre ai detenuti consiglio giuridico. Oltre a ciò dà la possibilità alle donne destinate al rimpatrio di vedere e parlare con qualcuno. Viene sostenuto dalle tre chiese regionali bernesi come anche dalle comunità ebraiche. (da ref.ch; trad. it. voceevangelica.ch)

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