“Quando mio padre è diventato italiano io ero minorenne e ho potuto avere la cittadinanza. Altri miei fratelli non sono stati così fortunati e stiamo ancora aspettando. Intanto non sono potuti venire a vedermi ai giochi olimpici di Londra, perché ottenere il visto per loro era troppo complicato. È stato un po’ triste”. Il racconto è della campionessa di judo Edwige Gwend. Nata in Camerun ma cresciuta in Italia, fa parte di quella cosiddetta “seconda generazione” che tanto sta dando al nostro paese, nello sport e non solo, ma di cui il nostro paese sembra non volersi occupare.
Jean-Jacques, specializzato nella marcia, in Italia ci è addirittura nato, e italiano ci si sente “al 100%”. Mentre il velocista Delmas, campione italiano dei 100 metri piani, è invece nato in Costa d’Avorio, e ha raggiunto la madre in Italia quando aveva otto anni: “Non mi piace molto essere considerato un simbolo delle seconde generazioni – spiega – Vorrei semplicemente essere un simbolo dello sport. Sono cresciuto a Pisa e sono iscritto a giurisprudenza, l’Italia è il mio paese. Lo stesso vale per tanti altri figli di genitori stranieri, eppure l’amministrazione non ci riconosce”.
L’Italia, infatti, è ormai piena di ragazzi che si sono integrati pur non essendo vip, e il libro parla di loro, di chi chiede ancora la cittadinanza, di chi lavora, studia, ama e odia come qualsiasi altro italiano. E sembra assurdo che, alle soglie del 2014, a livello politico si stia ancora discutendo di questo tema con toni demagogici e populistici, e non si sia intrapresa la strada più logica dello ius soli, ovvero l’acquisizione della cittadinanza come conseguenza del fatto giuridico di essere nati nel territorio dello Stato, qualunque sia la cittadinanza posseduta dai genitori.
La legge italiana 91/1992, infatti, prevede invece lo ius sanguinis, secondo cui la cittadinanza può essere trasmessa per nascita da padre o madre cittadini italiani o, in caso di minore età, per acquisto della cittadinanza italiana da parte di genitore convivente (com’è successo alla campionessa Edwige Gwend, iter comunque piuttosto raro). Se il minorenne nasce in Italia da genitori non cittadini, ma regolarmente residenti, sarà titolare solo di un permesso di soggiorno temporaneo che garantisce i diritti sociali (all’istruzione, alla salute). Potrà richiedere la cittadinanza italiana al compimento dei 18 anni, ma avrà solo un anno di tempo per farlo, previa dimostrazione di aver vissuto fino a quel momento con continuità sul territorio italiano. Se non rispetta questi termini, dovrà fare la domanda per la residenza e risiedere per almeno 3 anni.
Tutto si complica ulteriormente per coloro che non nascono in Italia, per i quali non è previsto un percorso ad hoc, e che possono solo seguire i canali di accesso alla cittadinanza disponibili per i loro genitori: 10 anni di residenza o matrimonio con cittadino italiano. “Sono in Italia da quando avevo 5 anni – racconta Queenia Pereira, rappresentante della Rete 2G, – perché ancora oggi che ho 27 anni devo periodicamente fare la fila in questura per rinnovare il permesso di soggiorno?”. Lei, nata in Brasile da madre brasiliana e padre nigeriano, ha fatto la domanda per la cittadinanza quando era troppo tardi e ancora sta combattendo con le lungaggini della burocrazia nostrana: “Ciò che fai, ciò che senti e ciò che sei qui non basta, eppure sono convinta che nemmeno la nascita sia tanto importante ma che la tua casa sia dove ti sei formato e sei cresciuto”.
Sebbene non esistano statistiche precise sulle seconde generazioni, il Dossier statistico sull’immigrazione del 2013 compilato da Unar e Idos conta quasi 80mila bambini “stranieri” nati in Italia nel 2012, mentre l’anagrafe ha registrato circa 590 mila i bambini stranieri negli ultimi 10 anni. “Fra qualche anno si raggiungerà la parità fra i neonati italiani e quelli nati da immigrati” aggiunge il presidente dell’Istituto di studi politici Pio V, Antonio Iodice, secondo cui il fenomeno delle seconde generazioni sommerebbe le problematiche tipiche dell’età adolescenziale al macroproblema della migrazione, che coinvolge non solo chi fa i viaggi della speranza. “Perchè anche i nati in Italia – spiega – vivono la stessa diffidenza di chi non viene accettato come italiano ma contemporaneamente non si è mai sentito pienamente bengalese, marocchino, cinese e così via”.
Secondo Io dice il nostro governo e spesso gli stessi italiani non hanno ancora compreso che “proprio le seconde generazioni saranno il futuro dell’Italia, una risorsa da utilizzare per risollevarci da una condizione difficile come quella che ci troviamo a vivere oggi”. Parole a cui fanno eco quelle del presidente del Collegio dei sindaci dell’Inps, Daniela Carrà: “Il nostro paese è avvitato su se stesso, con una classe dirigente vecchia, chiusa e maschilista, anche a causa dei suoi meccanismi di selezione. Ed ecco che il confronto con le ‘2G’ diventa un’occasione formidabile per porci delle questioni: dalla cittadinanza all’istruzione al lavoro. Ma per tutti, stranieri e italiani”.
Con barriere discriminatorie tutt’oggi presenti anche nello sport, che al pari della scuola dovrebbe essere uno dei più importanti ambiti di integrazione, si capisce come il nostro paese sia ancora indietro sulla questione, soprattutto a livello politico nazionale. Speriamo che la revisione della Bossi-Fini, auspicata da Matteo Renzi, non sia soltanto una proposta di facciata ma venga posta tra i primi punti dell’agenda di governo. Una discrepanza rispetto alla società civile e agli enti locali, molti dei quali sono ormai pronti a fare quel passo non più rimandabile verso la completa accettazione. Eppure, si persevera nell’infliggere questa sofferenza inutile, foriera di una malinconia tanto ingiusta quanto dannosa. I versi letti da Queenia Pereira – la poesia è sua e si intitola “Consapevolezza” – descrivono appieno questo senso di ansia ed eterna inadeguatezza:
“Non avere la cittadinanza italiana e vivere nel mio paese legata a un permesso di soggiorno per me equivale a uscire da casa con un paio di chiavi, sapendo che il padrone di casa (mia) può cambiare la serratura e lasciarmi fuori fregandosene di tutto ciò che ho dentro casa, dei miei affetti, dei miei amici, della mia famiglia, mia vita, del mio futuro, vivere nel mio paese con un permesso di soggiorno è come dover uscire da casa (mia) e pensare a chiudere il gas, abbassare le serrande, spegnere le luci, ma anche lasciare accostata la porta avendo paura di non poter rientrare più”.
Anna Toro
Fonte: http://www.unimondo.org/
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