Gli uomini non hanno fatto che spostarsi nel corso dei millenni, dai luoghi d’origine verso nuove terre, spinti da conflitti di tipo economico inter e intra comunitari, costretti da condizioni ambientali avverse, indotti da una crescita demografica insostenibile: sempre, è ovvio, con l’intenzione e nella speranza di migliorare le loro condizioni di vita. Sono partiti in esplorazione, da soli, lasciando indietro i familiari, oppure in gruppi di coloni, intere famiglie, con tutti i loro averi. Insediarsi in luoghi disabitati ha comportato problemi di adattamento all’habitat, domesticazione, difesa dai predatori. Ancora più complicato è stato inserirsi in ambienti già popolati: nella storia umana l’incontro tra comunità è scontro, più spesso che integrazione.
Fattore determinante a questo proposito è soprattutto la quantità e qualità delle risorse effettivamente disponibili. Le regioni fertili, le città vitali e ricche, i paesi in crescita attraggono gli emigranti: sia nel senso che sono mete preferite di chi emigra sia nel senso che, di solito, chi già vi abita sollecita e incoraggia l’afflusso di stranieri disposti a lavorare.
Ma città come, ad esempio, Harare, capitale di uno stato – lo Zimbabwe – devastato da anni di crisi economica, non offrono ai nuovi arrivati che la prospettiva di vivere di espedienti e di assistenza e carità, in concorrenza con chi già vi risiede; e si capisce che paesi con alti tassi di disoccupazione non possano favorire l’immigrazione e prendano provvedimenti anche drastici e impietosi.
Lo scorso 18 dicembre, nella ricorrenza della Giornata mondiale dei migranti, l’Oim, Organizzazione internazionale per le migrazioni, ha espresso preoccupazione per la tendenza alla chiusura delle frontiere, anche da parte di stati finora accoglienti.
Il Marocco, ad esempio, a dicembre, ha deciso di erigere una barriera di filo spinato lungo tutti i 450 chilometri di frontiera con l’Algeria per arginare l’immigrazione clandestina, oltre che per ostacolare il traffico di droga. Al tempo stesso ha iniziato nei giorni scorsi una campagna per la regolarizzazione degli immigrati clandestini, per lo più originari dell’Africa sub sahariana: circa 40.000 in tutto. Ne potranno usufruire però soltanto gli stranieri che vivono da almeno cinque anni nel paese e da due vi svolgono un lavoro retribuito oppure sono sposati e abitano stabilmente con un cittadino marocchino. Gli altri dovranno andarsene.
L’Arabia Saudita ha avviato a sua volta una campagna di regolarizzazione a partire dall’agosto del 2013. A marzo, inoltre, aveva varato drastiche norme restrittive al lavoro straniero che in pochi mesi avevano indotto a rientrare in patria circa un milione di immigrati, in gran parte asiatici. A preoccupare il governo saudita sono gli alti tassi di disoccupazione (12% in media, oltre il 30% tra i giovani) e l’ingente perdita di denaro a causa delle rimesse inviate alle famiglie dagli immigrati. Dal 1° novembre del 2013, terminata la campagna di regolarizzazione, sono iniziati i rimpatri forzati degli irregolari. Si prevede che entro l’anno almeno due milioni di emigranti lasceranno, volenti o nolenti, il paese. Nel solo mese di novembre quelli etiopi costretti al rimpatrio sono stati 100.000.
Contro gli immigrati clandestini sta prendendo provvedimenti anche Israele. Si tratta per lo più di africani molti dei quali chiedono lo status di rifugiati sostenendo di fuggire da dittature, persecuzioni, guerre civili. Il 5 gennaio hanno organizzato una manifestazione al centro di Tel Aviv a cui hanno partecipato oltre la metà dei 60.000 stranieri entrati in Israele clandestinamente negli anni scorsi. Il giorno dopo la protesta si è spostata attorno alle ambasciate occidentali e l’8 gennaio 10.000 irregolari hanno circondato il parlamento a Gerusalemme chiedendo un dialogo diretto con il governo e dicendosi intenzionati a proseguire la protesta a oltranza. Gli organizzatori delle manifestazioni reclamano condizioni di vita più umane e tempi più brevi per esaminare le domande di chi chiede lo status di rifugiato. Una nuova legge, approvata il 10 dicembre, tra l’altro li obbliga a pernottare nei centri di raccolta pur consentendo loro di uscirne durante il giorno. Nel 2013 è stata ultimata una recinzione elettronica lungo i 230 chilometri di frontiera con l’Egitto che ha messo fine agli ingressi illegali.
In controtendenza è la Thailandia, che guarda invece con preoccupazione alla prospettiva che milioni di birmani immigrati si apprestino a rientrare in patria, incentivati dal notevole sviluppo economico del loro paese. Quasi due milioni di birmani vivono in Thailandia dotati di permesso di lavoro, altrettanti lavorano ma privi di documenti. Costituiscono una forza lavoro indispensabile soprattutto nei settori dell’edilizia, della pesca e dell’agricoltura. A dicembre l’Oim e il Centro asiatico di ricerca sulle migrazioni dell’università thailandese di Chulalongkron hanno intervistato 5.000 immigrati birmani in sette diverse provincie, l’80% dei quali ha dichiarato di voler rientrare in Birmania in tempi brevi.
Fonte: http://www.lanuovabq.it/
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