Una vita senza parole

Viaggio nel mondo dello spettro autistico con la narrazione autobiografica di Lucy Lo Russo

Che cosa significa avere un fratello, bambino e poi adulto, autistico, lo racconta molto bene Lucy Lo Russo nel suo romanzo autobiografico*. Uno scavo, anche doloroso, nella storia della famiglia e nelle complesse dinamiche tra i suoi membri, nella propria infanzia, per cercare di ricostruire il percorso che ha portato lei e Andrea a essere le persone che sono oggi. Pagine molto intime, ricche di dettagli, fanno entrare il lettore, in modo “sensoriale”, nella vicenda. Il romanzo alterna stralci di diario, flashback, in cui passato e presente si intrecciano in un intricato viluppo di emozioni contrastanti.

Dopo un allontanamento precoce dalla famiglia, ancora adolescente, e una giovinezza anticonformista, tra case occupate e gruppi musicali punk-rock, seguita da un periodo nel mondo dello spettacolo, Lucy ha intrapreso la via dell’insegnamento di sostegno, in parte influenzata dal proprio percorso familiare, ma anche spinta dal desiderio di saperne di più: la sua esperienza personale le permette di avvicinarsi con un approccio particolare agli allievi, ma ogni caso è diverso e non si può mai essere certi di avere tutta la preparazione necessaria ad affrontarli.

Si impara molto, sia sugli effetti dell’autismo sulla psiche e sul corpo di una persona adulta (e le conseguenze sulla vita dei familiari), legati anche, per esempio, all’uso di medicinali per contenere gli “effetti collaterali”, sia sulle frustranti pratiche burocratiche, sulla preziosa “macchina” socio-assistenziale (le comunità residenziali, i servizi sul territorio, tra cui quelli della Diaconia valdese a Torre Pellice, luogo di villeggiatura della famiglia) e soprattutto sulla profonda evoluzione degli approcci pedagogici. Dagli anni Sessanta, quando Andrea è un bambino e si imputa alla “freddezza” delle madri la condizione dei figli, a oggi il panorama è completamente cambiato e il libro lo racconta attraverso le diverse fasi della vita dei protagonisti. Ricordando, per esempio, l’innovazione della Comunicazione alternativa aumentativa (Caa) in cui tra l’altro le opere diaconali valdesi, in particolare “L’Uliveto” di Luserna San Giovanni (To), struttura per persone con gravi disabilità, sono state pioniere.

Talvolta ci sono sprazzi di divertimento, di tenerezza, di sorpresa, ma leggendo si percepisce la sensazione di una vita quasi ininterrottamente tesa come una corda, sul punto di spezzarsi (e in certi momenti ciò avviene), in bilico tra senso di colpa e di inadeguatezza, rabbia, frustrazione. Alla ricerca di valvole di sfogo, di vie d’uscita. Il senso di oppressione, in alcune parti, è palpabile, e si comprende (o almeno, questa è stata la mia impressione di lettrice) come la scrittura del libro abbia avuto anche un valore terapeutico, un “buttare fuori”, prima che ciò che è “dentro” possa esplodere. Così, è proprio con la parola scritta che si cerca di colmare i vuoti di una vita senza parole. Il senso di incomunicabilità, di immobilità, l’estrema “ritualizzazione” e la monotonia delle abitudini, spezzata talvolta, improvvisamente, da eventi critici, ben esprimono la difficoltà delle giornate con Andrea, in cui diventa difficile ritagliarsi del tempo e dello spazio per sé.

In questo contesto, assume un’importanza particolare l’atteggiamento, la scelta di Lucy. Illuminante il passaggio in cui scrive, valutando la possibilità di trasferire il fratello in un’altra struttura: «… mi rendo conto di quante volte mi sono reinventata in quel lasso di tempo. Lui invece è stato sempre lì. Non ha potuto scegliere da solo. E mi sento responsabile di volergli dare una seconda chance. No, io non farò come fanno alcuni. Non mi girerò dall’altra parte, come un piccolo nazista che non è responsabile solo perché non vede. Perché incarica un altro, perché delega o è stato delegato. Non lascerò decidere agli altri, alzando le spalle. “All’occorrenza – se non ci sarà di meglio – vi faranno insegnare nelle aule più spoglie, anche nello sgabuzzino delle scope. E magari sarete trattati da insegnanti di serie B. E assieme ai vostri allievi sarete anche voi – nel caso – dei potenziali esclusi. Ricordate la responsabilità che ora state per accettare. Non dovrete mai fare questo lavoro per ripiego. Ricordate che a loro voi credete. Voi non dovrete diventare mai dei piccoli nazisti!”. Così ammoniva e sferzava la professoressa Sidoli, all’Università Cattolica di Milano, sei anni prima, i futuri insegnanti di sostegno». 

https://riforma.it/2024/01/23/una-vita-senza-parole/ù

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