VIZI CAPITALI – L’AVARIZIA

aviditC3A0
aviditC3A0L’avaro non approfitta della propria ricchezza

(Alain Houziaux) L’oro e il denaro portano in sé i peggiori eccessi quando da mezzi divengono il fine. L’avarizia giunge a sacrificare la propria vita a un idolo che non ha alcun valore.Attualità del vizio
L’avarizia: questo vizio e questa sofferenza sono ancora d’attualità? Oggi ci sono ancora avari? Mi sembra di sì, ma gli avari di oggi sarebbero piuttosto quelli che tesaurizzano e risparmiano la propria ricchezza senza volerla né spendere né investire.
L’avarizia è un godimento, il godimento di possedere. Ma questo godimento è decuplicato dal fatto di possedere la propria ricchezza senza utilizzarla – si potrebbe dire senza “goderne” -, senza profittarne, senza consumarne. L’avaro è seduto sul proprio mucchio d’oro, ma non se ne fa niente, e magari, eventualmente, lo nasconde pure. L’avarizia è un godimento (cioè una forma di piacere) senza godimento, cioè senza concedersi l’uso (il “godimento”) della propria ricchezza. L’avaro non profitta né del frutto né dell’usufrutto della propria ricchezza.
In effetti, l’avaro è affascinato dal potere che la sua ricchezza gli dà. Ma questo potere deve restare potenziale, persino virtuale. Per lui, questo potere virtuale ha un valore fantasmatico infinitamente più grande del potere reale di acquistare beni che egli possa utilizzare e di cui possa fare sfoggio davanti agli altri. L’avaro rinuncia a utilizzare la propria ricchezza per godere maggiormente dell’idea di essere ricco.

Avarizia e feticismo
Questa è la ragione per cui l’avarizia ha punti in comune con il feticismo. Per l’avaro, i luigi d’oro hanno valore di feticcio. I fantasmi che essi suscitano (i sogni che procurano, le compensazioni d’orgoglio che forniscono) procurano maggiore godimento di quanto ne procuri il fatto di poterli utilizzare. Se si guarda bene, l’avarizia e il feticismo sono godimenti di impotenti. Per costoro, il godimento dato dall’immaginazione si sostituisce vantaggiosamente al godimento dato dalla realtà.
A prima vista, chi risparmia lo fa per paura di essere in seguito a corto di denaro. Così – sembra – egli non conserverebbe la propria ricchezza che per poterne godere e profittare più tardi; egli non farebbe altro che rinviare il godimento della ricchezza che possiede. Questa motivazione, però, non è che un pretesto e una giustificazione illusoria per la tesaurizzazione. Si può persino immaginare, senza forzare troppo le cose, che un tesaurizzatore possa vendere ogni altro suo bene, anche la camicia, per procurarsi oro o valori tesaurizzabili.
Così, paradossalmente, il tesaurizzatore è animato dalla medesima pulsione sacrificale del monaco che fa voto di povertà e rinuncia alle proprie ricchezze per “sacrificarle” al suo Dio.
Il tesaurizzatore, dice Marx, “sogna il valore di scambio del suo denaro, e questa è la ragione per cui egli non fa alcuno scambio”. Egli vuole che il suo denaro sia “sotto la forma che lo rende sempre adatto alla circolazione, e questa è la ragione per cui egli lo ritira dalla circolazione”. Per poter sempre avere denaro disponibile, egli si rifiuta di disporne. Ma in realtà questo paradosso non è affatto tale: per il tesaurizzatore, il fatto di utilizzare effettivamente il proprio denaro cancellerebbe infatti l’idea che egli può e potrà sempre utilizzarlo.

Oro e morte
In effetti, l’avarizia è spesso una sorta di vendetta. Sapere che si è ricchi è un godimento che consola del fatto di essere disprezzati; è una rivincita rispetto al fatto di essere vecchi, brutti e così via. L’avaro, dicendo “sì, ma sono ricco”, si prende la sua rivincita nei confronti dell’immagine che egli stesso ha di sé e che pensa di dare agli altri. La ricchezza è una forma di compensazione rispetto alla mancanza di stima e d’amore per se stessi.
Aggiungiamo un altro punto che – ne conveniamo – può sorprendere. L’avaro tesaurizza il proprio oro per non farne alcun uso, e lo fa forse anche perché quest’oro, in se stesso, non ha alcun “valore d’uso” e non può servire a niente. L’oro è ciò che si potrebbe chiamare un valore morto, e questo, forse, è proprio ciò che per l’avaro costituisce tutto il suo pregio. Egli si attacca al proprio oro per rifiuto della vita, ed è senza dubbio per questo che l’avarizia e la tesaurizzazione hanno origine in ciò che Freud chiama “la pulsione di morte”,
Questo legame tra l’oro e la morte appare chiaramente nella leggenda di Mida (Virgilio, Eneide, III, 57). Mida soffriva di una “mortale sete di oro”. Egli chiese a Dioniso di poter trasformare in oro tutto ciò che avrebbe toccato, e questo gli fu accordato. Mida si rese allora conto che quello che tentava di bere e di mangiare si trasformava in oro prima che potesse saziare la sua sete e la sua fame. Il suo appetito per l’oro lo condannava a morire di fame e di sete. Secondo la leggenda, Mida chiese allora di essere liberato da ciò che aveva richiesto. Un vero avaro, però, non l’avrebbe fatto; avrebbe preferito l’oro alla vita.

Poveri gli avari
Il destino dell’avaro (o del tesaurizzatore) è tragico. Egli sacrifica la propria vita e i godimenti della vita sull’altare di una divinità (quella dell’oro e della ricchezza) che non ha alcun valore d’uso (poiché l’oro e il denaro non ne hanno mai) e alla quale egli nega ogni valore di scambio (poiché egli rifiuta di utilizzare la propria ricchezza come mezzo di scambio). Così egli si sacrifica a un idolo e a un “valore” (in senso finanziario) che non hanno valore alcuno. Povero lui (se posso permettermi di dirlo a proposito di un avaro ricchissimo)!
La parabola del ricco stolto (Luca 12,13-20) completa e precisa chiaramente tutto ciò: “Gesù disse loro: ‘Guardatevi e tenetevi lontano da ogni cupidigia’”. Poi Gesù racconta la storia di un uomo che cerca di ammassare il suo raccolto in granai via via più grandi, progettando di potersi poi riposare, una volta venuto il momento, e godersi una vecchiaia senza fatiche. Gesù descrive qui il pretesto che il risparmiatore si dà per giustificare il piacere che ha nel tesaurizzare. Ma, prosegue la parabola, “Dio gli disse: ‘Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà?’”. Poi, al termine di questa parabola, Gesù dispensa un insegnamento sulla vanità delle inquietudini e fa un’apologia dei gigli che non lavorano e non filano.

Keynes e i gigli
L’economista Keynes (1883-1946) ha fatto spesso riferimento a questa immagine dei gigli. Egli, infatti, condanna la tesaurizzazione per richiamare il valore d’uso e il valore sociale del denaro: “A questo punto, penso che siamo liberi di recuperare alcuni princìpi religiosi e valori più solidi, e tornare a sostenere che l’avarizia è un vizio, l’usura un comportamento reprensibile, e l’avidità ripugna: che chi non pensa al futuro cammina più spedito sul sentiero della virtù e della saggezza. […] Dobbiamo onorare chi può insegnarci a cogliere meglio l’ora e il giorno, quelle deliziose persone capaci di apprezzare le cose fino in fondo, i gigli del campo che non lavorano e non filano”.
“L’amore per il denaro, per il possesso del denaro – da non confondersi con l’amore per il denaro che serve a vivere meglio, a gustare la vita -, sarà, agli occhi di tutti, un’attitudine morbosa […] da affidare […] agli specialisti di malattie mentali” (J. M. Keynes, Possibilità economiche per i nostri nipoti, trad. it. M. Parodi, Adelphi 2009, pp. 28 e 25).
Riassumendo in una frase: il denaro, invenzione pericolosa, porta in sé i peggiori eccessi quando, da mezzo per gli scambi, si trasforma in fine dell’attività umana. (da Réforme, trad. it. Ezio Gamba)

Da leggere:
Gilles Dostaler e Bernard Maris
Capitalismo e pulsione di morte
La lepre, 2009

Ti è piaciuto l'articolo? Sostienici con un "Mi Piace" qui sotto nella nostra pagina Facebook