Il Thorpedo si è arenato a fondo vasca, inceppato al motore da un olio saturo che puzza di birra e alcool. Il bolide si chiama Ian e ha 31 anni, età precoce per smettere di tuffarsi in piscina ad inseguire medaglie: ma uno come lui, l’australiano Thorpe, il primo riconoscimento di prestigio se l’è messo al collo quando di primavere ne aveva solo 14, e per un triste gioco di lunghezze tanto presto ha cominciato a vincere quanto presto ora ha rinunciato all’abbuffata. Il ricovero di mercoledì sera, giorno in cui l’ex olimpionico del nuoto è stato portato in una clinica di Sydney per curare i suoi problemi con l’alcool, è stata l’ultimo tuffo scomposto di una carriera finita precocemente, sbilanciata da infortuni, depressione e fallimenti. Pochi giorni prima un incidente domestico lo aveva costretto al ricovero in ospedale, emettendo lo scricchiolio più acuto sul suo stato di salute, prossimo a crollare ancora.
LA CARRIERA. Quello di mercoledì non è nemmeno il suo ritiro ufficiale, o meglio, non è il primo. È una storia strana quella di Thorpe, verrebbe da catalogarla come la più paradossale ma purtroppo sempre frequente crisi depressiva del campione, quello che vince tutto ma non è felice. «Ho la nausea, provo disgusto e indifferenza. Sento di non aver vissuto come volevo», era la sua ammissione quando aveva 24 anni, reduce da 11 allori mondiali e 5 primi posti alle Olimpiadi. Lo squalo cominciava ad avere paura dell’acqua, le pinne che lo spingevano forte (aveva il 53 di piede) giravano a vuoto. E quel mondo che fin lì lo aveva innalzato a eroe (che emozione la vittoria nella “Gara del secolo”, la finale dei 200 stile libero ad Atene 2004: in vasca lui, Phelps, Van de Hoogenband e Hackett) ora cominciava a fargli schifo. Lo sport, a volte, sa essere cinico: uno s’ammazza di allenamento per inseguire un successo, poi la gioia dura il tempo di un inno sul podio. Scendi i gradini ed è tutto finito, i record si mostrano nella loro forma più arida, ricordi, come evoca il loro stesso nome.
L’11 SETTEMBRE 2001. E pensare che a quei successi Thorpe avrebbe potuto anche non arrivarci mai, perché l’11 settembre del 2001 era a New York, e stava proprio per salire sulle Torri Gemelle. A salvarlo fu una macchina fotografica dimenticata in albergo, per la quale tornò indietro e scampò alla strage terroristica: una di quelle situazioni che qualcuno chiama coincidenze, altri miracoli. Ma se agli aerei di Al Qaeda Thorpe era sfuggito, all’uggia che cresceva nel suo animo dopo i successi no. Cercava altro, era scontento, e già nel 2006 si trovò a fare i conti con la depressione e l’alcolismo: «Ho anche pensato a luoghi o a modi per uccidermi, ma poi ho sempre rinunciato, rendendomi conto di quanto sarebbe stato ridicolo».
IL TENTATO RITORNO. Nel 2011 era un po’ che le vasche non lo vedevano, ed ecco la svolta: decise di tornare in acqua per riacquistare un po’ di serenità. Alle spalle un milione di dollari offertigli dal suo sponsor, pronto a scommettere forte nel ritorno. Davanti un obbiettivo famigliare, le Olimpiadi. Ma la cosa non funzionò, e i giochi di Londra li dovette guardare da casa. È stato l’ultima spinta ad un declino che è proseguito inesorabile, la traiettoria di un vecchio Thorpedo che scivola pian piano verso il fondo. Col motore ingolfato da alcool e il corpo pesante di medaglie. (Fonte: Tempi.it)
Secondo il dizionario coraggio è “forza morale che mette in grado di intraprendere grandi cose e di affrontare difficoltà e pericoli con piena responsabilità”. Il coraggio di affrontare ogni sfida è una virtù che può far parte della vita dell’uomo; è Ian Thorpe di certo lo è stato quando gareggiava in tutte le competizioni internazionali che ha vinto. Lui era un coraggioso e un temerario durante le sfide, ma non di certo quando si trovava nei Bar o nei party fuori dalla piscina a osteggiare successi e bellezza e ad ubbriacarsi con gli amici; lì non dobbiamo confondere il coraggio con la pazzia.
Nella Bibbia incontriamo molti uomini che hanno avuto coraggio, o hanno dato la vita per la predicazione della Parola di Dio. È importante comprendere come il coraggio biblico non è motivato solamente da forza morale, ma dalla fede in Dio.
Quando Pietro non ebbe il coraggio di ammettere di essere discepolo diCristo, non fu perché gli mancasse la forza morale, ma perché non ebbe piena fede in Gesù Cristo. Per questa mancanza di fede, venne meno. Il coraggio del credente non è sola determinazione personale, ma si fonda nella fede incrollabile riposta in Gesù Cristo, che fa andare avanti senza paura e dà forza e coraggio per ogni circostanza della vita.
IL CORAGGIO DELLA FEDE
(1 Samuele 17:32; 42-47)
Davide non era un temerario, sapeva che fisicamente non poteva vincere contro Goliath. Fisicamente il gigante avrebbe potuto facilmente vincere contro il giovane. Ma il coraggio di Davide non veniva dalla propria abilità,ma dalla profonda convinzione che l’Eterno l’avrebbe reso vittorioso perchè nessuno poteva insultare il Dio di Israele o il Suo popolo! Davide era indignato: nelle schiere d’Israele, impressionate dal campione filisteo circolava la paura. Di fronte a tale realtà, Davide, invece di scoraggiarsi, si propose per affrontare e combattere contro il gigante. Quando Goliath vide Davide, si risentì, valutandone l’aspetto fisico. Ma Davide era certo che l’Eterno gli avrebbe dato vittoria, non indietreggiò, anzi, corse incontro all’avversario nel Nome dell’Eterno degli eserciti, che gli diede grande vittoria! Davide, anche se giovane, era cosciente che il gigante era un serio pericolo. Non si vantava di essere più forte del gigante, ma confidava nell’Eterno, che già lo aveva aiutato con il leone e l’orso, e per certo ancora lo avrebbe aiutato. Il suo coraggio veniva da una logica non elaborata razionalmente, ma acquisita dall’esperienza della fede pratica. Infine, davanti al gigante, Davide non indietreggiò di un passo. Alcuni avrebbero potuto pensare: “È un pazzo!”. Altri “È veramente coraggioso!”. Davide non era né un pazzo, né un impavido esibizionista, il suo coraggio gli veniva dispensato da Dio, attraverso cui non risieda la fede è un coraggio destinato a finire, ma il coraggio della fede è sicuro e incrollabile!
IL CORAGGIO DALLA PAROLA DI DIO
(Giosuè 1:6; 10:25; 23:6)
Giosuè ricevette coraggio da Dio.
Fu Dio stesso a parlargli dicendogli di non temere, ma di farsi animo.
L’uomo, per natura, è portato allo scoraggiamento, a perdersi d’animo e questo Dio lo sa benissimo, è Dio stesso a dare una parola di incoraggiamento. Il Signore invitò Giosuè a mettere in pratica la “Legge”. È la Parola di Dio la fonte di coraggio! Il Signore parlò a Giosuè e lo incoraggiò, lo invitò ad afferrarsi alla Sua Parola, perché era da lì che avrebbe potuto attingere coraggio. Non sempre l’uomo saprà ascoltare l’incoraggiante voce di Dio, ma avrà sempre a disposizione la Sua Parola! La Parola di Dio non è soltanto per l’edificazione, ma è fonte da cui poter attingere per vivere. Giosuè parlò agli Israeliti dicendo loro di non temere, ma di farsi animo (10:25).
Prima l’Eterno ha incoraggiato Giosuè, poi fu Giosuè che incoraggiò il popolo. Questo significa che bisogna prima ricevere da Dio, se si vuole dare. Giosuè aveva ricevuto un prezioso consiglio che, applicato nella sua vita, era pronto a dare anche agli altri. Giosuè aveva imparato a vivere coraggiosamente ascoltando la voce di Dio e vuole condividere con il popolo questa esperienza affinché possa vivere coraggiosamente.
I consigli di Dio sono meravigliosi! Ci sono molti manuali di psicologia che insegnano come aumentare il coraggio. Ma questi consigli non offrono nulla di duraturo. Solo la Parola di Dio è la fonte del vero coraggio indispensabile per affrontare la vita di tutti i giorni.
CORAGGIO NELLA PROVA
(Filippesi 1:28)
Bisogna resistere coraggiosamente senza paura degli avversari.
Il credente sa che non deve avere paura, perché nessuno può minacciarlo quando trae vigore e coraggio dall’incrollabile fede nel Sangue di Gesù Cristo. Questo coraggio viene dalla consapevolezza che gli avversari sono destinati a perire, mentre il credente è destinato alla vittoria per mezzo di Cristo. Quindi il coraggio del credente viene attinto direttamente dalla forza di Colui che ha vinto per noi, Gesù Cristo.
Talvolta il coraggio viene meno quando si attraversano prove lunghe e difficili. Ma il credente può prendere coraggio e andare avanti, se comprende che la prova è parte del piano che Dio ha prestabilito, affinché possa crescere nella santificazione.
Non temiamo gli avversari intorno a noi o le prove più ardue: tutto risulterà per il bene di quelli che confidano nel Signore. Con la consapevolezza che tutto coopererà per il bene di quelli che amano Dio, bandiamo la paura e camminiamo coraggiosamente. Il coraggio risiede nel cuore consapevole che Dio lo ama, e che agisce per il suo bene.
I credenti non sono degli eroi che affrontano difficoltà di ogni genere, sprezzando il pericolo per spirito di esibizionismo. Il coraggio del credente è responsabile, con la consapevolezza che non è solamente con le proprie forze morali e fisiche che potrà affrontare i problemi della vita. Il credente riconosce che il suo coraggio è attinto da una fede viva e vera in Gesù Cristo; riconosce che ha bisogno della Parola di Dio, affinché questo coraggio si possa ogni giorno formare e costruire nella sua vita; riconosce che deve obbedire coraggiosamente a Colui che esige l’obbedienza e l’onore e, infine, riconosce e va avanti coraggiosamente durante la prova, perché crede che la prova non sarà per la sua perdizione, ma, se egli persevererà con costanza, condurrà a godere appieno della salvezza che Dio ci ha provveduto in Cristo Gesù.
Il coraggio è prerogativa del credente maturo che si lascia guidare dallo Spirito Santo, che obbedisce a Dio e che mette ogni giorno in pratica la Sua Parola, osservandola e vivendo per essa coraggiosamente!
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