Nei campi iracheni cristiani la situazione è diventata insostenibile. Parlare di coprifuoco ormai è un eufemismo. Nei mesi passati tanti hanno alzato la voce per cercare di sensibilizzare chi di dovere a muoversi, ma adesso – a detta del patriarcha iracheno – sembra tutto senza speranza.
La notizia di oggi ci giunge da Erbil, e la fonte è Asia News – “Ho visitato i campi profughi nelle province di Erbil e Dohok e quello che è visto e quanto ho sentito vanno al di là di ogni più fervida immaginazione!“; i cristiani iracheni, e tutte le altre minoranze del Paese, hanno ricevuto “un colpo terribile” al “cuore stesso della loro vita”, privati di ogni bene, delle proprietà e persino dei documenti. Il problema dunque non sembra più tanto o soltanto toccare le minoranze cristiane, quanto tutte quelle minoranze che fungono da portatori di diversità e di opportunità di crescita per il Paese iracheno stesso che, in questo modo, sembra essersi chiuso in un cerchio vizioso che lo sta facendo implodere.
Il Patriarca caldeo Louis Raphael I Sako, in questo appello – inviato ad AsiaNews – ricorda che dal primo mese di nascita dei problemi di cui stiamo parlando oggi non si sono ancora trovate “soluzioni concrete” alla “crisi”. Da un lato, infatti, tutte le potenze che potevano fare qualcosa sono rimaste inermi limitandosi a prendere una posizione verbale e di rifiuto della crisi stessa, ma senza nessuna azione davvero concreta per limitare quantomeno un esodo annunciato. Di contro, osserva sempre il patriarca nel suo appello accorato, continua inarrestabile “il flusso di denaro, armi e combattenti” per lo Stato islamico: questi flussi originano dalle più svariate zone del mondo facendo con ciò stesso pensare che una crisi del genere sia “quasi voluta” dagli organi superiori.
Riprendendo le parole del patriarca – “a fronte di una campagna mirata” per eliminare cristiani e minoranze dall’Iraq, il mondo “non ha ancora compreso la gravità della situazione“. Ma se qualche mese fa il problema era comprendere l’importanza della crisi irachena, oggi non è più tanto questo a doverci far preoccupare quanto invece il fatto che “è iniziata la seconda fase della calamità“, ovvero “la migrazione di queste famiglie” in molte parti del mondo, causando “il dissolvimento della storia, del patrimonio e dell’identità di questo popolo“.
Il Patriarca caldeo e presidente della Conferenza episcopale irakena spiega che il fenomeno migratorio ha un “grande impatto” tanto sui cristiani, quanto sui musulmani stessi, perché “l’Iraq sta perdendo una componente insostituibile” della propria società. L’Iraq non sarà mai più lo stesso. E, così, tutti i raporti e le relazioni irachene nei confronti degli altri Stati saranno totalmente diverse divenendo, oggi più che mai, una fonte di pericolo e di minaccia perchè una crisi del genere cominci ad infiammare altri Paesi che fino ad ora sono rimasti a guardare. Si sa che la storia insegna che, ove qualcuno ha riportato una vittoria, comincia ad organizzare una seconda spedizione per cavalcare la scia del successo ottenuto. Se poi, alle solite motivazioni di potere, aggiungiamo una forte componente religiosa e di forte impatto emotivo e che crea un solido collagene e un manipolo di persone disposte a tutto, ci si rende perfettamente conto della polveriera che tutti gli Stati, con il loro silenzio, hanno contribuito a costruire in questi mesi. Il Patriarca, dunque, ineluttabilmente, punta il dito contro la comunità internazionale, in testa gli Stati Uniti e l’Unione europea, i quali pur ammettendo la necessità di una soluzione rapida, non hanno preso provvedimenti concreti “per alleviare la sorte” di una popolazione martoriata.
Tratto e rielaborato da Asia news
Gabriele Paolini
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