Il Canada è in prima linea sul fronte del jihad insieme a tutto l’Occidente. L’attacco terroristico al Parlamento di Ottawa sta scatenando polemiche per la gestione della sicurezza che non dovrebbero riguardare solo il Canada ma tutto l’Occidente che ha aderito politicamente e anche con contributi militari alla Coalizione contro lo Stato Islamico (IS).
«Un errore spettacolare per l’intelligence canadese» ha titolato il britannico Guardian, ricordando che i servizi canadesi avevano diffuso recentemente un rapporto dal quale emergeva che 90 estremisti di nazionalità canadese stessero per lasciare il paese per andare a combattere a fianco dell’IS o volevano pianificare attentati in Canada. Uno di questi era Martin Rouleau-Couture, desideroso di unirsi ai jihadisti in Iraq e che lunedì ha ucciso con la sua automobile un soldato ferendone un altro in un sobborgo di Montreal prima di venire colpito a morte dalla polizia.
Rouleau, 25 enne convertitosi all’islam “ribattezzatosi” Ahmad, era nella lista dei sorvegliati a cui era stato ritirato il passaporto perché voleva unirsi all’Is in Iraq e ha raccolto l’esortazione dello Stato Islamico a colpire con ogni mezzo gli Occidentali incluse “automobili e pietre”.
Non è la prima volta che accadono fatti del genere. Nel maggio dell’anno scorso un militare britannico venne sgozzato per strada a Londra da due jihadisti e nel marzo 2012 l’algerino Mohamed Merah uccise tra Tolosa e Montauban tre soldati francesi ferendone un altro gravemente oltre ad ammazzare tre bambini e a un adulto che uscivano da una scuola ebraica.
Negli ultimi mesi, scriveva ieri il canadese Globe and Mail l’opinione pubblica da una parte e i politici dall’altra hanno spinto a favore di un atteggiamento più aggressivo delle forze di sicurezza in materia di lotta al terrorismo. Ne è risultato uno sforzo per bloccare o revocare i passaporti per fermare l’esodo degli estremisti che aspirano ad unirsi alla lotta dei jihadisti all’estero. Anche il quotidiano The Star si pone diversi interrogativi su quanto accaduto ieri, ricordando che l’attentatore di lunedì era stato fermato a luglio, quando voleva imbarcarsi su un volo per la Turchia, con ogni probabilità per proseguire per la Siria. E – si chiede – cosa è accaduto al Parlamento, dove un uomo armato è riuscito a sparare ad una guardia ed entrare nell’edificio?
Nonostante i servizi di sicurezza avessero innalzato il livello di allarme il Parlamento era di fatto privo di difesa e se invece di un “cane sciolto” fosse stato attaccato da un gruppo armato numeroso e ben armato, come quello che nel settembre 2013 attaccò il centro commerciale West Gate a Nairobi, i jihadisti avrebbero fatto strage di deputati ed esponenti governativi.
Anche Michael Zehaf-Bibeau, l’attentatore 32enne rimasto ucciso durante l’attacco al Parlamento di Ottawa dopo aver ucciso il soldato riservista Nathan Cirillo (che montava la guardia col fucile scarico al Monumento ai caduti della capitale canadese), era stato inserito dalle autorità canadesi nella lista nera dei “viaggiatori ad alto rischio” e gli era stato ritirato il passaporto. Nato nel 1982 in Quebec, era figlio di un libico, Bulgasem Zehaf, e Susan Bibeau, funzionaria canadese dell’ufficio immigrati e rifugiati. La coppia ha divorziato 15 anni fa e Michael si sarebbe avvicinato all’islam solo recentemente, dopo aver collezionato una lunga serie di precedenti penali: dal 2001 era stato incriminato 11 volte, per reati dal furto, al possesso di droga e armi illegali.
È stato in Libia, probabilmente con il padre che nel 2011 andò a combattere con i ribelli contro il regime di Muammar Gheddafi. Secondo fonti della Cnn si era recato almeno quattro volte negli Stati Uniti, l’ultima nel 2013 e gli investigatori cercano di ricostruire questi viaggi per verificare se abbia avuto contatti con qualche estremista che vive negli Stati Uniti. Sembra inoltre certo, dalla testimonianza del suo amico David Bathurst (un altro convertito all’islam) che Zehaf Bibeau conosceva Hasibullah Yusufzai, incriminato nello Stato canadese del British Columbia sulla base della legge anti-terrorismo per aver cercato di andare a combattere in Siria.
Ancor più dei cosiddetti “foreign fighters” che vanno a combattere in Siria o Iraq con il Califfato il pericolo sul fronte interno dell’Occidente è costituito dai veterani jihadisti rientrati dalla guerra o da un soggiorno di addestramento nei campi in Siria, Libia, Pakistan o addirittura dei numerosi simpatizzanti non addestrati a combattere e ad azioni terroristiche, ma comunque in grado di brandire un’arma o di utilizzare un’automobile per uccidere chiunque, ma privilegiando obiettivi istituzionali e militari in libera uscita disarmati.
La vicenda canadese non ci dice nulla di nuovo, semmai conferma che l’Occidente ha la memoria corta in fatto di terrorismo islamico e sicurezza. Come è possibile stupirsi oggi della minaccia portata dai “terroristi fai-da-te”? Non erano tali anche i kamikaze che uccisero 57 persone a Londra il 7 luglio 2005? O più recentemente i due ceceni dell’attentato alla maratona di Boston? Se fino a ieri il “logo” che andava per la maggiore tra i jihadisti era al-Qaeda e oggi è il “brand” del Califfato ad essere di moda, la minaccia resta però la stessa. Come in Siria, diversi combattenti qaedisti del Fronte al-Nusra si uniscono al più forte e prestigioso Stato Islamico, così in Occidente i simpatizzanti di bin Laden trovano oggi irresistibile il fascino di al-Baghdadi.
Il vero problema per l’Occidente è una classe politica sempre più palesemente inadeguata a fronteggiare la minaccia jihadista, quasi inconsapevole delle conseguenze della scelte attuate in politica estera. Europei e canadesi hanno seguito gli Stati Uniti aderendo alla Coalizione senza rendersi conto che così diventavano belligeranti? Non c’è bisogno di mandare aerei a bombardare i miliziani in Iraq, è sufficiente fornire armi ai curdi per diventare bersagli “legittimi” del Califfato, come ammonì nell’agosto scorso l’ex ministro della difesa Arturo Parisi (Pd), commentando la decisione del governo Renzi di armare i curdi.
Siamo vulnerabili innanzitutto perché non accettiamo di essere in guerra, non riconosciamo neppure che le comunità islamiche costituiscono ormai in buona parte un problema cronico per la nostra società in termini di integrazione degli immigrati, di condivisione di valori democratici e pluralistici, di rispetto delle leggi e di sicurezza.
Polizia e servizi segreti fanno del loro meglio per tenere d’occhio i potenziali jihadisti e terroristi già individuati ma sono migliaia e non ci sono certo gli strumenti legali per incarcerare nessun finché non compie atti illeciti. Del resto sarà sempre più difficile controllare i sospetti e persino il territorio nelle periferie di molte metropoli europee dove gli investimenti delle monarchie del Golfo (cioè gli sponsor dello Stato Islamico) hanno finanziato moschee e centri di cultura islamica all’interno dei quali è difficile, se non impossibile, per le autorità, avere il controllo di quanto accade. In attesa che il prossimo jihad venga dichiarato in Europa o in America dovremo forse rassegnarci a farci l’abitudine ad attacchi come quelli registrati in Canada nei giorni scorsi, ma almeno non nascondiamo la testa sotto la sabbia. Non facilitiamo il lavoro agli jihadisti.
di Gianandrea Gaiani
Fonte: http://www.lanuovabq.it/
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