Viaggio nel più famigerato campo di tortura dei Khmer rossi con Bou Meng e Chum Mey, due degli unici sette superstiti di quell’inferno.
Bou Meng non riesce a trattenere le lacrime quando pronuncia, con voce singhiozzante, ma rispettosa e devota, il nome di sua moglie, Ma Yoeun. Sono passati quasi quarant’anni dall’ultima volta che l’ha vista, in una stanza minuscola, di sfuggita da un pertugio della benda che gli copriva gli occhi. Entrambi ammanettati e rigidi in piedi mentre venivano scattate foto segnaletiche, sotto arresto senza una ragione. Era il 16 agosto 1977, lo stesso giorno del loro arrivo nella prigione S-21, il più truce e cruento centro di detenzione messo su dai Khmer rossi durante il loro regime in Cambogia.
Si trova a Phnom Penh, capitale del piccolo stato asiatico: in questo edificio, un tempo una scuola, dal 1975 al 1979, anni del fanatico dominio ideologico della Kampuchea democratica, sono stati imprigionati, massacrati e uccisi dai 12 mila ai 14 mila tra uomini, donne e bambini, etichettati come oppositori o dissidenti. Vittime di uno spietato genocidio, feroce e “cannibale”: stessa etnia, cambogiani contro cambogiani. Sotto la guida del leader Pol Pot, il regime attuò una rivoluzione inedita nella storia per radicalità e velocità. Ogni aspetto della vita individuale venne stravolto: gli abitanti furono deportati dalle città ai campi attuando una politica agraria che livellava gli individui, seguendo un’ideologia che è un miscuglio di nazionalismo, maoismo e marxismo. I credi religiosi vennero banditi, chiusi tribunali, scuole e ospedali. Venne abolita la moneta; carestia e violenza portarono allo sterminio di un milione e 700 mila persone, un quarto della popolazione cambogiana.
«Non sono stato fortunato»
Bou Meng ha 76 anni e un destino gravoso sulle proprie fragili spalle segnate dall’età e dalle frustate: è uno dei sette sopravvissuti del centro S-21; è l’unico, assieme a Chum Mey, 86 anni, a essere ancora in vita. Entrambi siedono, poco distanti l’uno dall’altro, nel cortile di quello che è stato il loro peggior incubo: nel 1981, subito dopo la liberazione da parte delle truppe vietnamite che hanno rovesciato i Khmer rossi, la prigione è stata trasformata in una testimonianza del genocidio. I due sopravvissuti, da cinque anni, ogni giorno, attendono al Tuol Sleng Genocide Museum i turisti per raccontare le torture che hanno subìto e come sono riusciti a rimanere in vita. «Sono sopravvissuto, ma non posso dire di essere stato fortunato», confessa Chum Mey. «Mia moglie e i miei figli sono morti e le torture che ho sopportato sono state orribili. Ma ce l’ho fatta e credo sia mio dovere raccontare la mia storia. Non voglio che ciò accada di nuovo».
Raccontare affinché la memoria non si disperda nella polvere dell’oblio. Per loro il tempo è un’entità svuotata di senso e di dimensione, un pegno dantesco per essere scampati all’efferata cattiveria: i loro giorni avanzano in un eterno “loop” scandito da emozioni, nausea, debolezza, un moto perpetuo e ondulato di commozione e di testimonianze che si ripetono decine di volte nell’arco di una giornata. Gli occhi dei visitatori si inumidiscono, alcuni si mordono le labbra e stringono i pugni nel sentire le atrocità: entrambi non sentono da un orecchio a causa delle percosse e delle scariche elettriche, Bou Meng mima con scatti repentini e sofferenti il gesto della pinza che strappa e torce le unghie delle mani o il lavaggio con acqua e sale sulle ferite ancora sanguinanti. Sono ambasciatori di un passato che vuole divincolarsi dai legami perché ai cambogiani fa dannatamente male. «Ogni famiglia, da quella del re ai contadini, ha perso almeno un caro durante il genocidio», spiega Bou Meng. «È un tormento: l’ombra del passato vive con noi e i fantasmi dei morti mi seguono, scheletrici per la fame, indossando le uniformi nere».
Il passato che disturba
Nella Cambogia che ha rimosso dalla propria pelle novant’anni di protettorato francese, che resiste come flebile anelito solo in alcuni menù scritti in doppia lingua in qualche ristorante atemporale; in un paese che è mosso da un vibrante e frizzante caos dove i tuk-tuk sfrecciano disperdendo smog maleodorante e si fermano nei mercati folkloristici pieni di colori e tarantole o insetti fritti, in una terra buddista attraversata dal fiume Mekong che spacca in due una società divisa dalla voglia di progredire e dalla rilassatezza di una popolazione genuina e spensierata, non c’è spazio per riportare a galla gli orrori che si sono autocommessi. Una parte della Cambogia ha sviluppato anticorpi per rigettare un passato che disturba.
Anche per questo al Tuol Sleng si vedono pochi cambogiani: in una zona dell’edificio, alcune stanze sono attraversate da infinite file di fotografie. Sono istantanee scattate dai funzionari alle vittime appena giunte in prigione. Tra i loro sguardi spenti, privi di anima, ci sono amici, parenti o conoscenti. Ci sono affetti persi per sempre solo 38 anni fa. All’esterno si vedono le barriere di filo spinato che avvolgevano pareti e finestre, non per non far fuggire i detenuti, ma per evitare che si ammazzassero ponendo fine alle sofferenze. Le vecchie aule scolastiche contengono brandine di ferro arrugginito con foto dei corpi mutilati dei prigionieri incatenati a letto; altre classi furono trasformate in minuscole celle claustrofobiche per “ottimizzare” gli spazi. La 022 era quella di Chum Mey. Se si esclude il sorriso accogliente della ragazza all’ingresso e il nebulizzatore d’acqua che rinfresca i visitatori mentre pagano il biglietto, che caricano l’atmosfera di un senso turistico che mal si concilia con il silenzio e lo spirito del luogo, tutto è rimasto immutato come se la clessidra fosse poggiata su un piano, orizzontalmente.
Chum Mey e Bou Meng si sono salvati, così come l’altro sparuto gruppo di superstiti, perché utili al regime, una mossa cara a ogni forma di tirannia spietata. Il primo era un meccanico e si offrì di riparare le macchine da scrivere, necessarie per annotare gli interrogatori e le finte confessioni. Gli diedero un vestito e lo spostarono di cella, dopo avergli inflitto dieci giorni di torture nei quali lui si vide costretto a confessare di essere della Cia anche se era la prima volta che sentiva nominare questa organizzazione.
Il primo libro scolastico nel 2010
Bou Meng, invece, era un artista, un mestiere imparato deviando dal corso naturale della maggior parte dei ragazzi cambogiani di metà Novecento, impegnati a lavorare nelle risaie. Fu proprio Kaing Guek Eav, meglio noto come “Duch”, il direttore del centro, a ordinargli i ritratti di Pol Pot: «Mi disse: se il quadro non dovesse assomigliare, verrai ucciso». Lui accettò il patto disonesto convinto di poter essere ancora in grado di dipingere, nonostante l’assenza di lucidità. Disegnò quattro ritratti del leader, a cui si aggiunsero Marx, Lenin e Mao Zedong, tutto materiale utile per la propaganda: «Sono una vittima di Pol Pot – confida – ma sono sopravvissuto grazie ai ritratti di Pol Pot». Un cortocircuito esistenziale, uno dei tanti di un massacro fratricida. Carnefice e salvatore allo stesso tempo, in un microcosmo irreale: artisti, intellettuali, letterati, medici, professori, essendo giudicati corrotti dall’Occidente, erano i primi a soccombere nell’epurazione paranoica e fanatica voluta per spianare le divisioni sociali.
Nel 2003, Bou Meng ha ripreso in mano il pennello e le tempere per disegnare più di cento tavole che illustrano le varie torture. Ha dovuto tapparsi il naso per immortalare l’inferno, ma è il suo testamento, è il gesto di chi vuole coccolare e proteggere, ancora una volta, la memoria. Loro non cercano giustizia per le vittime, loro vogliono giustizia per il futuro. Un futuro consapevole, critico e non evanescente.
Nel graphic novel Centomila giornate di preghiera di Loo Hui Phang, viene, infatti, narrata la complessità dell’opera di trasmettere il ricordo alle generazioni successive. È un racconto onirico, un viaggio iniziatico di un bambino cresciuto senza padre, morto nel massacro, la cui verità viene celata dalla madre, una francese scappata dalla Cambogia, per non traumatizzarlo. In Cambogia e nei luoghi della diaspora non è facile parlare dell’argomento: c’è pudore, paura di trasmettere l’orrore. Per trent’anni la storia del genocidio non è stata insegnata a scuola, così si è scavato un inaccettabile solco generazionale. Solo nel 2010 è apparso il primo manuale scolastico. Un paradosso grottesco che costringe la Cambogia a specchiarsi nella propria coscienza.
Le vittime, i carnefici e i loro figli
Choeung Ek, a circa 15 chilometri a sud di Phnom Penh, era il più vasto campo di concentramento sotto il regime di Pol Pot. Dove oggi sorge un memoriale sono stati giustiziati gli internati della prigione S-21 e tanti altri civili o soldati “rouge” che non adempivano al loro compito. I neonati venivano ammazzati sbattendoli contro un albero o infilzandoli con le baionette dopo averli lanciati per aria, con le madri, alle quali venivano strappate le palpebre, costrette a guardare. Sono stati riesumati quasi novemila corpi, un numero irrisorio rispetto a quelli ancora sotterrati nelle fosse comuni. Hanno smesso di scavare per rispetto alle anime dei morti, ma da una decina di anni, quando piove intensamente, dal fango emergono ossa, resti umani e vestiti. I morti continuano ad assillare i vivi, superando epoche e frontiere, alla ricerca di pace da assolvere sulla terra.
«La gente khmer, nota per avere una bellissima pelle scura, labbra carnose, grandi nasi e statura bassa, è sempre stata tollerante, amichevole e pronta a sorridere. L’aggressività e la crudeltà non appartengono a noi. Ma oggi la Cambogia è una terra di vittime, di carnefici e dei loro figli. Vittime e carnefici vivono assieme all’interno di una “cultura di impunità”», sospira Bou Meng. Solo il 26 luglio 2010, infatti, il tribunale cambogiano sotto l’egida delle Nazioni Unite ha condannato il comandante Duch – all’interno di un processo per la prima volta diretto contro gli alti ranghi dei Khmer rossi – a 35 anni di carcere per crimini contro l’umanità.
I due sopravvissuti hanno testimoniato durante il processo, ma non cercavano vendetta. Ora Bou Meng mostra una foto stropicciata della moglie quando aveva 28 anni. Il tempo si è cristallizzato nella piena giovinezza. La conserva eternamente. Ma anche per lui e Chum Mey il tempo ha smesso di scorrere.
Foto di Giovanni Sgobba
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