Mangerete a sazietà il vostro pane e vivrete sicuri nel vostro paese.
(Levitico 26, 5)
Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li distribuì alla gente seduta; lo stesso fece dei pesci, quanti ne vollero.
(Giovanni 6, 11)
Quando qualcosa mi disturba, il mio stomaco si chiude e non riesco a mangiare. Fin da bambina è stato così. Solo dopo aver risolto il problema che mi pesa, ritrovo l’appetito.
Mangiare non è soltanto un mezzo per risolvere la fame e ritrovare forza. Il nostro rapporto col cibo ha a che vedere con il nostro modo di stare al mondo. I disturbi alimentari non sono solo patologie nutrizionali. Nel mangiare noi diciamo sì alla vita; e nel farlo insieme, esprimiamo la nostra fame di relazione, di condivisione. L’altro non è colui che mi ruba il pane e minaccia la mia sicurezza, ma è il compagno, ospite alla stessa mensa della vita. Noi chiediamo a Dio il nostro pane e non la mia pagnotta personale. Il pane condiviso, spezzato e, per questo, moltiplicato, è quello che dona Dio all’umanità affamata di senso e di affetti.
La chiesa diventa parabola di questa umanità ed è qui rappresentata come la compagnia di coloro che condividono il pane. Una comunità conviviale che trova sicurezza non nella chiusura e nel possesso, ma nel dono reciproco. Prima di volare alto, di annunciare le grandi speranze della fede, la chiesa, nello spezzare il pane, impara a non tralasciare i bisogni primari, a condividere il quotidiano e a suggerire il carattere simbolico dei gesti di ogni giorno. E mentre offre il pane, invita ad interrogarsi su che cosa nutra realmente le nostre vite.
Fonte: http://www.riforma.it/
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