Emergenza vite spezzate, I migranti e richiedenti asilo che sbarcano sulle nostre coste c’è la faranno?

25-Foto_01Ogni estate i riflettori puntati su Lampedusa illuminano la meravigliosa isola della luce funesta dell’«emergenza sbarchi». Un’emergenza costruita, prevedibile e annunciata, che si ripete ciclicamente a ogni esordio di estate e si svuota rapidamente dopo la bella stagione generando una stanca assuefazione. Ma gli sbarchi, che certo aumentano d’estate, avvengono in tutte le stagioni dell’anno ma non guadagnano alcun titolo di giornale e fanno notizia raramente. Quello che è certo è che i numeri degli sbarchi sono più o meno gli stessi da molti anni, a eccezione del 2011, quando le rivolte in Nord Africa e la guerra civile in Libia hanno portato sulle nostre coste oltre 60.000 migranti e richiedenti asilo. L’emergenza vera è quella delle vite spezzate e interrotte durante la traversata, è quella di un sistema di accoglienza frammentato e insufficiente a garantire dignitosa accoglienza a quelli che ce la fanno, è una legislazione che incoraggia quella stessa immigrazione irregolare che dice di voler combattere.

Dopo l’estate cala un drammatico silenzio sugli sbarchi e sui naufragi fantasma e fanno più notizia le migliaia di persone costrette alla fuga da guerre che anche l’Europa sostiene e incoraggia. È la guerra la principale causa della fuga e oltre la metà dei rifugiati nel mondo proviene da 5 paesi: Afghanistan, Somalia, Iraq, Siria e Sudan. Ogni quattro secondi una persona nel mondo è costretta alla fuga. Il 2012 ha registrato il numero di rifugiati e sfollati più alto degli ultimi 18 anni: oltre 45 milioni. Il dato più allarmante è che il 46% è costituito da minori non accompagnati o separati dai loro genitori. Di milioni di persone che, spesso in una manciata di secondi, devono lasciare la propria casa e il proprio paese in cerca di protezione, una piccola parte arriva in Europa e una piccolissima parte sbarca sulle nostre coste. L’81% rimane nei cosiddetti «paesi in via di sviluppo» che da sempre accolgono un numero altissimo, e in aumento, di rifugiati e sfollati.

Alcuni giorni fa 95 migranti, per lo più eritrei, sono stati soccorsi dalla Guardia Costiera italiana e, una volta giunti a Lampedusa, hanno riferito di alcuni compagni di viaggio – sette o forse più – annegati nel Canale di Sicilia mentre tentavano di aggrapparsi alla gabbia per l’allevamento di tonni trainata da un motopeschereccio tunisino. L’equipaggio non se l’è sentita di correre rischi imbarcando «clandestini» e ha preferito tagliare il cavo. La solidarietà può costare cara, anche anni di prigione, e non solo in Tunisia. Ma ormai ci siamo assuefatti anche ai tonni. È solo di pochi anni fa l’immagine che fece il giro del mondo e che ritraeva 27 somali rimasti aggrappati per tre giorni alle gabbie di tonni di un motopeschereccio maltese prima di essere soccorsi da una nave della Marina militare italiana. L’armatore si rifiutava di farli salire a bordo temendo di perdere il carico di tonni.

Le leggi dell’economia sanno essere ferree e inflessibili e persino la gravissima crisi economica che oggi attraversa l’Italia viene invocata per legittimare politiche di sbarramento e chiusura verso chi cerca protezione e futuro. Tali politiche, poco efficaci e assai dispendiose per un’Europa in crisi che investe un mucchio di soldi in sistemi sempre più sofisticati di controllo e sorveglianza delle frontiere, hanno lo scopo di dissuadere e scoraggiare le partenze dalla sponda sud del Mediterraneo. Questa guerra ai migranti ha costi umani altissimi: i morti e i dispersi, i salvati e gli scampati sono i suoi volti. E se non si potrà sempre dare sepoltura ai compagni annegati e dispersi, la mia domanda oggi è cosa hanno visto i sopravvissuti a questa guerra? Cosa hanno visto quegli occhi che non potranno più dimenticare e che recheranno con sé quelle immagini dovunque andranno? L’immagine ha una potenza inaudita, condiziona i nostri vissuti, i nostri sentimenti e i nostri desideri. Quale orrore questi occhi hanno conosciuto? L’orrore della morte dei compagni, l’orrore dell’impotenza, del disprezzo, dell’indifferenza? Come si vive portando il peso di quelle immagini e la responsabilità di custodirne la memoria? Quelle immagini saranno i loro fantasmi o troveranno spazio di espressione che li metterà al riparo? A queste domande, senza saperlo, mi ha risposto Alhassane, rifugiato del Mali che, a dieci anni di distanza dalla sua partenza dalla Libia verso Lampedusa nel 2003, conserva due immagini: l’amico morto durante la traversata e il bimbo non suo che ha tenuto tra le braccia per proteggerlo dagli accidenti della navigazione. E trova le parole per dirlo al telefono: «Quello che hai visto… occhi.. occhi… Lasciano segni… è quella la realtà. Dobbiamo raccontare, così chi arriva dopo lo sa».

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