“Il Piacere” di Gabriele D’Annunzio visto da una prospettiva cristiana

Gabriele D’Annunzio è considerato uno dei maggiori scrittori del XX secolo.

Esponente di spicco della corrente letteraria del Decadentismo, affermatasi nell’ultimo ventennio del XIX secolo in Francia con la pubblicazione del sonetto di Paul Verlaine “Languore” nel 1883 sulla rivista “Il Gatto nero”, il cui incipit delinea la tendenza poetica: “… Sono l’Impero [Romano] alla fine della decadenza”, ossia il sonetto esprime l’identificarsi con il periodo di stanchezza e di estenuazione spirituale della cultura del tempo,proteso al disfacimento e al crollo della civiltà contemporanea, come lo era stato a suo tempo L’Impero romano caduto sotto i colpi dell’orda barbarica, esaltando l’eleganza e la bellezza di momenti in cui una civiltà è in decadenza La visione del mondo decadentista consiste in un irrazionalismo misticheggiante, rifiutando la visione positivista, in cui prevale l’osservazione dei fenomeni naturali, regolata da leggi meccaniche e deterministiche e da una conoscenza oggettiva della realtà. I Decadenti affermano che l’essenza del reale è al di là delle cose. La scoperta dell’ inconscio è il dato fondamentale della cultura decadente, sprofondando nel suo vortice tenebroso e distruggendo ogni legame razionale. Ciò con l’osservazione scientifica di Freud, il quale vuole portare l’inconscio alla luce della coscienza e sottoporlo al dominio dell’io. L’essenza segreta della realtà per i Decadenti si può afferrare con gli strati abnormi e irrazionali dell’esistere come la malattia, la follia, la nevrosi, il delirio, il sogno, l’incubo, l’allucinazione, cioè uno stato alterato dell’uomo, che si sottrae al controllo della ragione, aprendosi a prospettive ignote, che sono al di là delle cose. Inoltre, i Decadenti sostengono una concezione panistica della vita, ossia la fusione dell’Io con la vita del grande tutto, che porta al potenziamento della vita, rendendola come divina.

Ancora, il Decadente si apre alle “Epifanie”, ossia alla “rivelazione” di un significato intenso contenuto in una particolare realtà, che appare insignificante. In aggiunta, parlare del Decadentismo significa parlare di estetismo, ossia una concezione artistica basata sull’esaltazione del bello, del raffinato, dell’eleganza, superando l’ideologia dei valori morali come principi regolatori della vita sociale: la vita e l’arte si fondono, come magistralmente D’Annunzio ha affermato nel “Piacere”(1889): “Fare della vita come si fa un’opera d’arte”.

Vanno aggiunti altri temi esaltati dai Decadenti come la lussuria e la crudeltà: i Decadenti esaltano la lussuria nel suo estremismo di perversità e crudeltà. Sono attratti anche dalla malattia e dalla morte. La malattia diviene metafora di una condizione storica, di un momento di crisi profonda, è il simbolo di una società malata. Il Decadente ama ciò che è corrotto, impuro, putrescente. Venezia è la città decadente per eccellenza, perché essa racchiude in sé bellezza e putretudine, raffinatezza e sfacelo. Cfr. D’Annunzio nel “Fuoco” e Thomas Mann in “Morte a Venezia”).

I Decadenti sono affascinati dalla malattia, perché prospetta la morte, sono ossessionati dall’annientamento e dal nulla. Tuttavia, cié viene spiegata dai critici non come una patologia, ma come un fenomeno collettivo, che rilette la corruzione e la decadenza di un’epoca, è il simbolo di una condizione generale della società europea, è la metafora di una crisi storica del tempo. Fa da contro altare al fascino della morte dei Decadenti il vitalismo sfrenato, l’esaltazione della pienezza vitale senza limiti e senza freni, sganciandosi da ogni forma morale, vi è la ricerca del godimento “dionisiaco” la celebrazione della forza barbarica, ferina, che impone il suo dominio sui deboli. Il teorico di questo vitalismo è Nietzsche, applicato nelle opere letterarie di D’Annunzio.

I letterati decadenti sono variamente definiti come “maledetti”, per la loro tendenza a profanare tutti i valori e le convenzioni sociali, scegliendo deliberatamente il male e l’abiezione, compiacendosi di vivere sregolatamente in maniera estrema attraverso il sesso disordinato, l’uso dell’alcol e delle droghe (vedesi Baudelaire, Verlaine, Rimbaud). Ma anche esteti cultori della raffinatezza, del lusso, della bellezza come Huysmans nel suo “Des Esseintes”, D’Annunzio nel so “Piacere”, Wilde nel suo “Dorian Gray” Il loro vige il concetto di modellare la vita come si fa con un’opera d’arte, le leggi morali sono sostituite dal culto del bello. L’esteta aborrisce la volgarità borghese, la società dominata dall’interessa materiale e dal profitto, dall’equilitarismo democratico. L’esteta si isola, vive solo a contatto con la bellezza e con l’arte(ad eccezione di D’Annunzio).

Tuttavia, i due tratti del Decadente si confondono, dando vita a figure “ibride”: sia il “maledetto” ha il culto mistico della bellezza e dell’arte, esaltando il male per il suo valore estetico, per la sua orrida bellezza, si al’esteta rifiuta le norme morali e le convenzioni, giungendo nella sua amoralità a commettere il male, essere protagonisti di vicende crudeli e delittuose, si compiace di sprofondare nel vizio (Des Esseintes, Andrea Sperelli, Doriana Gray). Il Decadente è anche un inetto. Figura inaugurata dal protagonista delle “Memorie del Sottosuolo” (1865) di Dostoienvskij, che ritorna nelle pagine di Fogazzaro (Corrado Silla di “Malombra”, di D’Annunzio(Giorgio Aurispa nel “Trionfo della morte”, di Svevo (Alfonso Nitti di “una Vita”, Emilio Brentani di “Senilità”), di Pirandello (Mattia Pascal). L’inetto è escluso dalla vita, che pulsa attorno a lui, e a cui non sa partecipare per mancanza di energie vitali. Si rifugia nelle sue fantasie, compensatrice di una realtà frustrante. Desidera forti passioni, ma avverte aridità, sterilità. Non partecipa alla vita, ma osserva. Alla figura di uomo debole e incapace di vivere si contrappone l’immagine antitetica di donna: la donna fatale, dominatrice del maschio, fragile, lussuriosa e perversa, crudele e ammaliatrice (questa immagine di donna è presente in molte opere teatrali di D’Annunzio e si può cogliere tale immagine anche in Elena Monti in “Piacere”). Un duplice fattore storico spiega la riflessione letteraria della donna fatale:

1° La crisi dell’identità virile dovuta alle trasformazioni sociali di quest’epoca, che abbatte l’immagine tradizionale dell’uomo forte.

2° L’affermazione della emancipazione della donna, che rifiuta il suo ruolo tradizionale, rivendicando un nuovo posto nella società.

D’Annunzio sembra essere l’unico poeta decadente a reagire contro lo scontro traumatico con la modernità borghese e industriale con il mito del superuomo. Egli non fugge, ma lotta, non rimuove, ma celebra l’avanzata espansionistica industriale, la macchina, la guerra, il conflitto sociale violento, il dominio dei più forti che schiacciano i deboli.

d’Annunzio reagisce aggredendo, esaltando la lotta e il dominio imperiale, l’affermazione dell’eccezionale. Tuttavia, l’attiva azione di difesa non placa l’angoscia, che attanaglia l’uomo moderno: nelle opere di d’Annunzio vi è una costante riflessione sulla attrazione della morte, del disfacimento, del nulla, causando un fascino morboso e voluttuoso. La costruzione del mito superomistico è la reazione psicologica per occultare quelle spinte nichilistiche e disgregatrici. E’ doveroso dire che l’esordio letterario di D’Annunzio, prima di elaborare la teoria del superuomo, era caratterizzato dalla descrizione di personaggi “inetti”, sconfitti, deboli (Andrea Sperelli nel “Piacere”, Giorgio Aurispa nel “Trionfo della Morte”), i quali indietreggiano di fronte all’orrore della società contemporanea e si rifugiano nell’interiorità solipsistica o nel culto dell’arte. E’ in una seconda fase della sua attività letteraria, che D’Annunzio reagisce all’inettitudine del vivere con i suoi superuomini dominatori e violenti, dotati sia di sensibilità eletta per la bellezza, sia di una forza barbarica e ferina.

IL PIACERE

E’ il primo romanzo di Gabriele D’Annunzio(1863-1938), in cui si fonde l’esperienza mondana e letteraria del Vate, testimone della crisi della bellezza di fronte all’affermazione della borghesia in ascesa e dell’incipiente industrialismo, del capitalismo, dell’imperialismo aggressivo, militarista della fine del secolo. Racconta le vicende amorose e artistiche di Andrea Sperelli, erede di una antica famiglia nobiliare italiana e raffinato artista e cultore d’arte. Il romanzo si apre con l’attesa di una sua antica amante, Elena Monti, sposata a un dissoluto lord inglese. Andrea Sperelli si smarrisce nella memoria della relazione con la nobildonna, la quale si rifiuta di attualizzarla. La reazione del giovane esteta e libertino è sregolata e morbosa. Assiduo frequentatore dei salotti romani, viene coinvolto in un sanguinoso duello, rimanendo gravemente ferito. Curato amorevolmente da una sua cugina nella villa ferrarese di Schifanoia, Andrea si immerge in una inebriante esperienza mistica a contatto con la natura. Qui incontra Maria Ferres, una nobildonna sposata a un funzionario del governo del Guatemala, dalla quale è sensibilmente attratto.

Maria Ferres è di indole mite, quasi dominata da un contegno di natura religiosa. Andrea cerca di cogliere nella casta nobildonna l’immagine di Elena, che non riesca a dimenticare. Il tortuoso gioco di sovrapposizioni che impegna la mente contorta di Andrea viene smascherato nell’atto in cui Andrea pronuncia il nome di Elena in un abbraccio con Maria. Maria, sdegnata, rompe la relazione, lasciando Roma per il disonore causato dal marito baro. Il romanzo si chiude con uno scenario cupo e desolante: Andrea si aggira sconfitto nella casa di Ferres, svuotata dai suoi lussuosi arredi venduti all’asta.

Si può ragionevolmente affermare che Andrea Sperelli è l’alter ego letterario di D’Annunzio. Le analogie tra autore e personaggio sono di tipo culturale e psicologico: Sperelli -D’Annunzio è un Dandy, cioè un aristocratico dai gusti raffinati, che afferma la sua superiorità e il suo disprezzo per la borghesia e il proletariato, si inebria nel condurre una vita lussuosa e lussuriosa, incurante della morale vigente. E’ un esteta, un raffinato cultore della bellezza, la quale è considerata centrale nella vita sociale, al di sopra anche dei valori morali, costruendo la sua vita come si costruisce un’opera d’arte. Tuttavia, l’estetismo di Sperelli, espressione dell’amore per la bellezza artistica e per l’ostentata superiorità del proprio io è conseguenza della consapevolezza dell’inautenticità della vita stessa, che nasce da una debolezza profonda della personalità, scandagliata dal narratore: Andrea Sperelli è allo stesso tempo un raffinato ritratto mondano e il lato oscuro di questo personaggio. Nel “Piacere” trovano una adeguata attenzione i sontuosi palazzi romani e i salotti raffinati dell’aristocrazia romana, della quale sono descritte le abitudini di vita, fra aste, ricevimenti, corse di cavalli. Tuttavia, vi è un punto di rottura in un momento del romanzo della festosità dissoluta cittadina. E’ quello meditativo della villa di Schifanoia nel silenzio della natura, in cui il protagonista trova un salutare balsamo per i suoi sentimenti.  Le vicende narrate nel romanzo, in cui vengono tratteggiati gli aspetti psicologici di Andrea Sperelli, rilevano alcuni temi fondamentali:

1° L’ambizione di costruire la propria vita “come si costruisce un’opera d’arte”, in base alla superiorità aristocratica.

2° La condizione dello Sperelli convalescente, che si relaziona empaticamente con la natura

3° Il valore assoluto della costruzione artistica del verso. Il romanzo è arricchito di una pregiata prosa ricercata, ridondante di termini rari e di riferimenti alla grande letteratura classica e contemporanea.

In definitiva, Andra Sperellli è un aristocratico e poeta, che “nel grigio diluvio democratico odierno” intende “fare della sua vita come si fa un’opera d’arte.

Privo di una bussola di orientamento morale, segue un itinerario di sconfitta: liquefatte le sue avventure erotiche, si trova a girovagare in uno spoglio palazzo nobiliare nelle ultime pagine del “Piacere”, privato dei suoi preziosi arredi dalle dure leggi del mercato e del profitto, triste spettatore del decadimento del mondo aristocratico e dell’ideale di bellezza, di ci la classe aristocratica sarebbe dovuta essere il geloso custode.

Paolo Brancè | Notiziecristiane.com

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