Intervista a Tatiana Bucci, una delle ultime e preziose testimoni italiane dei campi di sterminio. Si salvò con la sorella Andra perché le credettero gemelle e finirono nel Kinderblock di Mengele per essere studiate. Ora dal Belgio, dove vive, vede crescere la paura di nuove persecuzioni ma non ha timori in quanto ebrea: “Mi sento prima di tutto una cittadina europea, e non dobbiamo abbassare la guardia contro il terrore”.
Questo, di Auschwitz, lo ricorda benissimo. Un monito sussurrato da una donna che si occupava della loro baracca dei bambini: “Ascoltatemi bene. Se vi radunano tutti insieme in fila e vi dicono: chi vuole rivedere la mamma faccia un passo avanti, te e tua sorella non vi dovete muovere. Ricordatevelo”. Lo dicemmo subito anche a nostro cugino Sergio, ma lui non ci diede ascolto e, quando fu il momento, fece quel passo. Non l’ho mai più rivisto. Si seppe poi che fu usato come cavia per gli atroci esperimenti di Mengele e il suo corpo debilitato e scheletrico fu ritrovato appeso a un gancio da macellaio nel sotterraneo di una scuola di Amburgo”.
Tatiana Bucci, insieme alla sorella Andra, è la Storia. Come lo sono Sami Modiano, Piero Terracina e pochi altri, in Italia si contano ormai nelle dita di una mano. Vittime dell’Olocausto e testimoni che ancora hanno la forza di raccontare. Andra e Tatiana Bucci sono due sorelle di padre cattolico e mamma ebrea, internate a 4 e 6 anni, insieme a tutta la loro famiglia, il 4 aprile del ’44 ad Auschwitz, scambiate per gemelle e dunque finite nei Kinderblock del dottor Morte. Miracolosamente scampate all’eccidio.
Fanno parte di quella manciata di bambini, una cinquantina di tutti i paesi europei, che uscì viva da Auschwitz-Birkenau, il campo che ne aveva sterminati circa 200 mila. Tatiana, insieme ai suoi parenti, fu prelevata dai tedeschi a Fiume il 28 marzo del ’44, sostò due giorni alla Risiera di San Sabba, arrivò col treno merci nella rampa del lager e fu liberata dalle truppe sovietiche nove mesi dopo.
Erano 70 anni fa, il 27 gennaio del ’45 e di allora le è restato il braccio tatuato e una memoria scolpita per testimoniare al mondo cosa accadde, come fu, e perché nessuno dovrà mai dimenticare. Il 18 e il 19 gennaio era ad Auschwitz per accompagnare 300 studenti, e il giorno successivo ne ha seguiti altrettanti in un viaggio organizzato dalla Regione Toscana. Tatiana Bucci parla quattro lingue, vive a Bruxelles col marito, i figli e i nipoti, è un’esile signora con i lineamenti minuti. E’ una viaggiatrice instancabile, spesso è a Padova a trovare la sorella Andra, e a Roma ha un grande e fedele amico, lo storico Marcello Pezzetti, il direttore della Fondazione Museo della Shoah, organizzatore della grande mostra che il 28 si apre al Museo del Vittoriano intitolata “La liberazione dei campi nazisti” con l’attenzione rivolta soprattutto alle vittime e ai sopravvissuti italiani. Dopo i lutti di Parigi non ha mai pensato di lasciare la sua casa e trasferirsi in Israele. “Prima di essere ebrea mi considero una cittadina europea”.
Tatiana Bucci
Signora Bucci, lei era una bimba, aveva appena sei anni. Cosa ricorda di quel campo della morte?
“Il Kinderblock di legno, dove dormivamo, che ora non c’è più. E la neve, e sì, ogni tanto giocavamo con le palle di neve. E ricordo che mia sorella andò nell’ospedale del campo perché aveva ancora i postumi della varicella. Ci avevano scambiato per gemelle, dunque eravamo “merce” importante per Mengele e per questo non ci hanno separato. Per loro eravamo soggetti interessanti anche perché eravamo figlie di un uomo cattolico e di una donna ebrea, avevamo “sangue misto”. Ogni tanto vedevamo anche nostro cugino Sergio, anche se su di lui avevano iniziato subito a fare le prime visite antropometriche, misurazioni, prelievi di sangue. Ricordo anche una sorvegliante, una boklova, che ci prese in simpatia, e una volta un soldato tedesco ci regalò una scatola di biscotti. Però non ricordo quasi nessun volto e lo stesso dice mia sorella”.
Eravate nascosti a Fiume. Come vi presero?
“I tedeschi vennero di sera, accompagnati dalla stessa persona che aveva fatto la spia, che ci aveva venduto per soldi. Noi bambini eravamo a letto, ricordo che mia mamma ci svegliò e ci disse di vestirci in fretta. Vidi anche mia nonna che si inginocchiò davanti ai soldati. Ci portarono via in otto, mio padre, mia madre, mia sorella, zie, nonna e mio cugino Sergio, che aveva la mia stessa età. Per raggiungere Auschwitz ci caricarono tutti insieme sul carro bestiame e mi ricordo ancora la grande confusione all’arrivo, e mia madre che diceva a tutti che noi bambine eravamo battezzate. E ricordo anche che indossavamo dei bei cappottini. Sembravamo gemelle anche se avevamo due anni di differenza e così scampammo alla prima selezione: misero tutti su due file distinte, mia madre e mia nonna nel lato dei prigionieri destinati nei giorni o nelle settimane successivi alla camera a gas, noi nell’altro.
“A noi bambini ci portarono in una sauna, ci spogliarono e ci diedero degli altri abiti. E poi il tatuaggio del numero sul braccio. Non ci hanno tagliato i capelli come accadeva agli adulti, e invece ci rasarono i medici nel campo nei giorni appena dopo la liberazione perché eravamo piene di infezioni e pidocchi. Mia madre, prima che sparisse, ogni tanto riusciva a venirci a trovare e ci diceva sempre di ricordare il nostro nome, non dovevamo mai dimenticarlo. E questo ci aiutò molto per ritrovare qualcuno dei nostri parenti dopo la liberazione, mentre tantissimi sopravvissuti non ricordavano più nemmeno come si chiamassero. E non dimentico il secchio per i bisogni dentro il carro merci e i corpi di tante persone che vedevo ammonticchiati ai bordi del campo dove vivevamo. Atrocità”.
In Francia e nel suo Belgio molti ebrei anche ora temono per la loro vita, vittime e obbiettivi di azioni terroristiche jihadiste nel presunto nome di una religione contro le altre, e hanno deciso di lasciare l’Europa per trasferirsi in Israele. Lei ci ha pensato?
“Guardi, Israele è un bellissimo paese che ho visitato tanti anni fa da turista e mi ha emozionato, ma ci vorrei tornare semplicemente da turista. Ho sentito di molti amici a Bruxelles che vorrebbero andar via e non so se fanno bene o male, credo che debbano seguire il loro istinto. Certo, anche io ho paura, ma non penso assolutamente di trasferirmi. Prima di essere ebrea io mi sento una cittadina europea”.
Quale è la sua paura, adesso? Può spiegare meglio cosa intende, visto che lei l’orrore più indicibile l’ha già conosciuto settant’anni fa?
“Non ho paura per me, io la mia vita l’ho fatta, e in quanto ebrea non mi sento più minacciata di quanto non lo siano i cattolici. Temo però che possa succedere qualcosa ai miei figli o ai miei nipoti. Ci possono essere in giro altri terroristi come quelli che hanno compiuto le stragi a Charlie Hebdo e nel supermercato kosher e sembrano capaci di fare qualsiasi cosa contro chiunque. Non compiono atti esclusivamente antisemiti, ce l’hanno col mondo intero e agiscono anche in altri paesi, in Nigeria, ad esempio, contro altre religioni e se ne parla ancora troppo poco”.
Omicidi, attacchi, persecuzioni contro persone di religione diversa. Ha mai pensato che poteva un giorno tornare in pericolo perché ebrea?
“Credo fermamente una cosa: non credo che ci potrà mai più essere un’altra Shoah, quello no, però di nuovo bisogna alzare bene la guardia e soprattutto ora chiedere più sostegno e impegno all’Islam moderato, non può limitarsi a dire che non c’entra niente con chi ha ucciso persone inermi. E visto da un punto di vista di conflitto di religioni, dico che una parte del mondo islamico è tornato al Medioevo, al tempo delle Crociate, ma su questo la Chiesa cattolica ha fatto ammenda già da tanto tempo. E vedo grandi pericoli sulla volontà dell’Islam integralista di fare proselitismo. Noi ebrei non lo abbiamo mai fatto. Quanto alla mia paura di adesso, cerco di spiegarmi meglio: c’è, ma è un sentimento molto diverso, più di sconcerto, rispetto a quello in cui sprofondavo fino a una decina di anni fa quando sentivo parlare tedesco vicino a me. Provavo ancora terrore e disgusto, volevo allontanarmi subito, lontano da quella gente che aveva sterminato la mia famiglia. Solo da poco sono stata capace di riconciliarmi col popolo tedesco”.
*Sulla storia delle due sorelle, Titti Marrone ha scritto il libro “Meglio non sapere”, edito da Laterza, giunto ormai all’undicesima edizione.
di SIMONA CASALINI
Fonte: http://www.repubblica.it/
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