Pentecoste, festa della libertà

24Aprile2013Il dono dello Spirito ai discepoli li porta a mescolarsi, a raggiun­gere coloro che per nazionalità e cultura erano diversi. Il dono dello Spirito ai pagani ha come sconcertante conseguenza l’apertura del popolo di Dio ai paganiPentecoste è la festa della libertà, perché, come dice l’apostolo, non c’è più nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù. A Pentecoste ricordiamo la discesa dello Spirito Santo sui discepoli e celebriamo il momento in cui nasce la Chiesa, assemblea di uomini e di donne provenienti da ogni nazione sotto il sole, finalmente riscattati dall’oppressione del peccato. Lo Spirito è ora l’anima vitale di questo nuovo organismo che è la Chiesa, corpo di Cristo di cui noi siamo le cellule e il Risorto è il capo; qui riceviamo nuova vita «nello Spirito».

Che cosa significhi tutto questo ce lo spiegano i versetti che abbiamo letto dal capitolo 8 della lettera ai Romani

Che cosa significhi tutto questo ce lo spiegano i versetti che abbiamo letto dal capitolo 8 della lettera ai Romani, utilizzando la contrapposizione tra «carne» e Spirito e inducendoci, così, a una duplice riflessione. La prima riguarda la natura di questa «carne», termine che oggi, al di là dell’ambito culinario, fa pensare a una sessualità sregolata o a qualche piacere volgare. Per Paolo, invece, il concetto di «carne» indica, molto semplicemente, il nostro essere parte di questa creazione che, fin dal primo peccato di Adamo, è prigioniera del peccato, del male; ostile, perciò, alla volontà di Dio fino al giorno del giudizio: questo non significa per forza ingozzarsi di cibo a un festino bunga bunga, magari strafatti di droga. Significa vivere seguendo la nostra creaturalità la quale, se può talvolta portarci a situazioni estreme, più semplicemente nella quotidianità fa sì che tra esseri umani si insinuino oppressione, incomunicabilità, sviluppando relazioni impostate più sulla violenza (fatta e subita) o sulla strumentalizzazione che sull’amore al quale Dio ci chiama. Se questo è quello che siamo «secondo la carne», in Cristo abbiamo la possibilità di sfuggire alla schiavitù del peccato. Per fede possiamo affidarci alla promessa di Dio, ricevere il battesimo e, uniti a Cristo in virtù dello Spirito Santo, vivere nella libertà. Non è che non siamo più «carne»; semplicemente essa non è più l’unica opzione concessaci: ora abbiamo un’alternativa. Questa è proprio la libertà che Dio ci dona, chiamandoci a vivere «nello Spirito» la nostra santificazione, un concetto che, forse, può essere utile precisare, e su questo si concentra la seconda riflessione.

La cosa ch ha colpito è che le sue motivazioni non erano assolutamente politiche, bensì spirituali!

La cosa che mi ha colpito è che le sue motivazioni non erano assolutamente politiche, bensì teologiche. Un’alleanza con quel genere di persone, per una sorta di osmosi, avrebbe corrotto il movimento del (presunto) rinnovamento. Non è forse questa l’idea di santità diffusa nella cultura italiana, dove il santo è colui che, intimamente perfetto di fronte a Dio e nella sua stessa essenza diverso dal resto della massa, dovendo rimanere separato da tutto ciò che è materiale, umano, contaminato? Se entra in contatto con la nostra impurità, lo fa solo per nobilitarla e/o portarla verso la conversione, cioè trasformandone la sua stessa natura. È una concezione curiosa per un popolo dove poi, nella vita quotidiana, tutto è oggetto di compromesso e di baratto; un’eccezione che, in realtà, serve solo a confermare la regola. Ciò che è santo è al di sopra, direi al di là della realtà umana, un’idea perfetta di cui noi siamo solo una corrotta e pallida immagine e a cui guardare con pesanti sensi di colpa. Teologicamente e politicamente parlando, tutto questo si sta dimostrando devastante, perché pone ogni discorso a livello di questione di principio, non negoziabile per definizione. Questo concetto di santità, però, non ha nulla a che fare con il Nuovo Testamento, neanche quando qualche suo scritto si lascia andare a una radicale contrapposizione con «il mondo», come avviene, a esempio, nel corpus giovanneo. Si tratta di un vero e proprio fraintendimento delle Scritture e sia il racconto di Atti 2 sia il passo di Romani 8 ce lo dicono con chiarezza. Altro che separazione dal mondo, altro che trasposizione del santo a una dimensione ideale!

Nel giorno di Pentecoste il dono dello Spirito ai discepoli li porta prima di tutto a mescolarsi

Nel giorno di Pentecoste il dono dello Spirito ai discepoli li porta prima di tutto a mescolarsi, a raggiungere e unire coloro che per nazionalità e cultura erano diversi; il dono dello Spirito ai pagani (si pensi all’episodio della conversione di Cornelio, Atti 11) ha come travolgente e sconcertante conseguenza l’apertura del popolo di Dio ai pagani i quali, fino a quel momento separati mediante la legge di Mosè, adesso potevano stare insieme agli ebrei, uniti in un solo popolo. La Pentecoste è la festa dell’unione e del mescolamento, dell’abbattimento delle barriere tra esseri umani. A tutto ciò Paolo aggiunge un altro elemento importante. Non si tratta solo di mescolare popoli profani al popolo santo. A livello personale dobbiamo prendere atto del fatto che lo Spirito santo opera in un essere umano che, almeno fino alla nuova creazione, nell’ultimo giorno, rimane un essere «carnale» con un’innata tendenza al peccato. Essere santi in Cristo, non significa essere trasposti al livello di un’umanità superiore: significa non essere più schiavi del peccato e poter «camminare» secondo lo Spirito. Ora possiamo vivere la liberta dei peccatori giustificati che il Signore ha accolto con sé. Il peccato rimane in noi, nella nostra «carnalità», per usare ancora la metafora di Paolo, ma non signoreggia più su di noi. La libertà di colui che è santificato dallo Spirito di Dio, dunque, è una libertà che deve fare ogni giorno i conti con la nostra peccaminosità.

È la libertà di un essere umano pur sempre carnale ed esposto al peccato

È la libertà di un essere umano pur sempre carnale ed esposto al peccato, che in questo mondo continua a operare, anche in noi, per ricondurci sotto il suo giogo. Per trarre delle conseguenze pratiche da questo discorso, possiamo ricorrere a un ultimo esempio: quest’anno ricorrono i 1700 anni dall’editto di Milano, con cui l’imperatore Costantino concedeva libertà di culto ai cristiani. Certo, storicamente il costantinianesimo ha indotto il cristianesimo in una tragica tentazione, ma ha anche avuto il pregio di obbligare la Chiesa a smettere di restare ai margini della società e a fare i conti con il mondo. L’umanità che ci circonda non è solo un campo di evangelizzazione, ma anche uno spazio comune in cui abbiamo qualcosa da dire e da imparare da chi non condivide la nostra fede. Come a dire che dobbiamo vivere il nostro essere «nello Spirito» nell’incontro con chi è diverso da noi proprio come quando Paolo ci spiega che ogni giorno dobbiamo fare i conti con la nostra «carne» per poter vivere e testimoniare la libertà ottenuta in Cristo.

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