Intervista a «Miguel» Fiorello Lebbiati, giovane attivista impegnato nella promozione dei diritti del suo popolo. La situazione potrà cambiare solo abolendo i ghetti e promuovendo l’integrazione.
In Italia si stima che vivano tra i 110.000 e i 170.000 fra rom e sinti, lo 0,25% dell’intera popolazione residente. A oggi la minoranza rom continua a essere la più discriminata, non solo in Italia ma in tutta Europa. Ne abbiamo parlato con Fiorello Lebbiati, per il suo popolo «Miguel». Miguel ha 32 anni, è di origine sinta da parte paterna e rom da parte materna. Vive a Lucca dove lavora come operatore per la Caritas e ha una figlia che si chiama Jasmine. Nei mesi scorsi ha frequentato il primo corso per attivisti rom e sinti promosso dall’Associazione «21 Luglio» e dal Centro europeo per i diritti dei rom (Errc). Dal 18 maggio si trova a Roma per svolgere un tirocinio presso l’Associazione «21 Luglio» (www.21luglio.org), e per alcune giornate è presente anche negli uffici del Servizio rifugiati e migranti della Federazione delle chiese evangeliche in Italia, nell’ambito di una collaborazione tra il Servizio stesso e la «21 Luglio». A Miguel abbiamo rivolto alcune domande.
– Nei mesi scorsi hai partecipato al corso per attivisti rom e sinti, promosso dall’Associazione 21 Luglio. Che cosa ti ha lasciato?
«Il corso è stato importante perché ha dato strumenti validi, ma una delle cose fondamentali è stata il fatto di non sentirsi soli rispetto a una battaglia. Sapere che in Italia esistono altri ragazzi rom e sinti come me, che credono in un cambiamento e spendono la loro vita e il loro tempo per questo, ti rende più fiducioso e più forte.
Penso che questi corsi debbano essere fatti perché è giusto che le comunità sinte e rom inizino a conoscere i propri diritti e ad avere strumenti per auto-tutelarsi. È molto importante non lasciare fare sempre agli altri le cose per noi».
– Da metà maggio sei a Roma per svolgere un tirocinio. Come stai vivendo questa esperienza?
«Da quando sono qui mi sto rendendo conto del grande lavoro che svolge l’Associazione 21 Luglio e sto più o meno “assaggiando” tutte le attività. Sono rimasto abbastanza scioccato da Roma e da come le politiche romane segregano e ghettizzano il mio popolo. Sono stato per la prima volta in alcuni campi gestiti dal Comune di Roma e questi luoghi, ognuno a suo modo, ti scioccano. Alle medie ho avuto una professoressa in gamba che ci ha fatto studiare il fascismo e la deportazione. Venendo a Roma mi sono reso conto che esistono ancora i “campi di concentramento”. I campi rom vengono dislocati lì dove c’è molta probabilità di prendere malattie pesanti, come accanto a una ciminiera o di fianco a una fabbrica di gas, e ho saputo che si riscontra anche un aumento dei tumori. Vedere bambini, vecchi e persone anche adulte vivere in quello stato mi ha fatto male. I primi giorni non ho dormito. Migliaia di persone vengono ghettizzate e lasciate lontane dalla società. Penso che non sia umano».
– Invece, qual è la situazione a Lucca?
«A Lucca dal 1985 si danno case a sinti e rom. Esistono due piccoli campi a livello familiare. Il campo è sempre il campo ma a Lucca è a 150 metri dal centro, attraversi una strada e sei a contatto con tutti; i bimbi vanno a scuola, frequentano amici e hanno scambi con la comunità non rom. La maggior parte dei sinti a Lucca sono italiani, tranne una piccola parte di nuova immigrazione. C’è uno scambio e un’integrazione a livello umano altissima. Molti lavorano, facendo lavori usuali o tradizionali. Non voglio dire che non esista niente di illegale. Probabilmente c’è qualcuno che vive ancora di espedienti perché alcuni sono rimasti privi di strumenti dagli anni post guerra con le “scuole speciali”. A Lucca vivevo un razzismo e una ghettizzazione, più a livello idealistico che reale. A Roma li vivi sulla pelle. Non so se per fortuna o sfortuna, ma avevo bisogno di vedere anche questo».
– Il 9 luglio scorso è avvenuto lo sgombero del campo informale di via Val D’Ala a Roma e tu sei stato presente. Che cosa ha significato per te?
«È stato abbastanza pesante vedere come il Comune di Roma non abbia rispettato i diritti di queste persone. Senza un reale preavviso, sono arrivati e hanno distrutto le baracche: 39 persone, di cui 10 bambini e anziani malati. Per tre giorni siamo rimasti davanti all’Assessorato a protestare. L’unica soluzione che offrivano era dividere le famiglie. Nessuno ha accettato e, pur di non dividersi, erano disposti a dormire per la strada e ricominciare da capo. È stato bello vedere la forza che avevano queste persone, anche di fronte a quei soprusi. Alla fine li hanno messi tutti in un centro, ma spero sia una soluzione provvisoria».
– Prima raccontavi di come a Roma tu abbia percepito sulla tua pelle un razzismo che finora non avevi mai provato. Secondo te perché?
«L’opinione pubblica a Roma, anche caricata dalla stampa, è molto negativa rispetto alla mia comunità. Ho avuto l’occasione di parlare con dei ragazzi romani con cui ci siamo ritrovati a esprimere i soliti disagi e così ci siamo avvicinati umanamente. Poi ho detto loro che ero rom. Beh, un ragazzo ha cambiato espressione e mi ha detto che se non mi fossi presentato in quel modo, tanto da non aver capito che ero rom, mi avrebbe pestato a sangue perché lui ci odia e ci brucerebbe tutti perché per lui rubiamo tutti. Sono d’accordo che non si dovrebbe rubare e che alcune pratiche non sono buone ma io ho un altro livello di umanità e mi chiedo anche il perché una persona viva di espedienti. Questo è un problema e credo che la media dei romani la pensi in questo modo. Non è giusto che un popolo intero venga denigrato e odiato perché uno Stato o un Comune non si fa carico dei propri doveri, cioè dare la possibilità a queste persone di vivere una vita dignitosa e normale. Fa male vedere l’odio nella gente».
– Che cosa si potrebbe fare per cercare di sanare questo squilibrio sia di informazione sia di relazione tra le persone?
«Innanzitutto torniamo ai campi, luoghi di ghettizzazione. Non si può parlare di inclusione quando delle persone vengono unite per appartenenza etnica e isolate dalla vita e dal sistema città/paese. Proporrei di cercare politiche di reale integrazione. Perché per esempio non si creano case per tutti, rom, italiani e stranieri insieme? Laddove l’inclusione è reale tutto cambia. Nella mia esperienza ho notato quanto è importante frequentare le scuole, abitare insieme agli altri e quindi non solo ai rom. Cresci con gli altri, fai quello che fanno gli altri, è una catena che va da sé. Il primo passo è cambiare le politiche abitative e sanare alcuni vulnus delle leggi per quanto riguarda i permessi di soggiorno o la cittadinanza. Altrimenti rimarranno sempre in quella zona di limbo dove saranno costretti a vivere in certi modi.
Sarebbe importante che anche la stampa iniziasse a smetterla di accanirsi sul mio popolo in maniera così aggressiva. Un buon giornalista deve riportare i fatti. La cronaca è cronaca. E poi la gente dovrebbe imparare a giudicare le persone una a una. Andiamo oltre i pregiudizi e apriamo gli occhi. Spero che un giorno rom e non rom facciano un percorso insieme per creare un mondo migliore per tutti».
a cura di Dafne Marzioli
Tratto da: http://www.riforma.it/
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