Solidale col cuore e con la mente

Lisa20BosiaOperatrice del Soccorso Operaio Svizzero, Lisa Bosia lavora da anni a favore di migranti e i rifugiati. Inserita in una rete di solidarietà, aiuta profughi in Ticino e in Italia.
Lisa Bosia, 42 anni, di padre ticinese e madre italiana, lavora dal 2000 come operatrice sociale del Soccorso Operaio Svizzero (SOS) a Chiasso. Ma accanto al suo lavoro ufficiale ha creato in privato una rete di solidarietà a favore di rifugiati e richiedenti asilo che da Milano arriva fino a Catania, in Sicilia.

Da quanti anni si occupa di accoglienza di profughi?
In modo professionale ho iniziato nel 2000, con un progetto dell’istituto Torriani che accoglieva minorenni non accompagnati. È durato un anno, più o meno, era il tempo della guerra d’Albania, la fine, gli ultimi strascichi di quel conflitto. Poi questo progetto ha chiuso e ho lavorato per dieci anni come osservatrice di un’opera assistenziale negli interrogatori che la polizia fa ai richiedenti asilo. Quella è stata una esperienza molto interessante perché mi ha aperto gli occhi sulla situazione del mondo. Terminati gli studi, ho avuto la fortuna di iniziare a lavorare per il Soccorso operaio e adesso sono con loro da sei anni.

Le persone che arrivano e alle quale lei da aiuto, attraverso quali esperienze sono passate?
Quello che le accomuna è la perdita della speranza. Ci sono persone che portano con sé la disperazione del non riuscire a costruirsi una vita nel paese in cui sono nate. Le ragioni possono essere diverse, ma questo è sicuramente un elemento che le accomuna. Nei loro racconti c’è da un lato questo senso di fallimento e di impossibilità di vivere nel loro paese, e dall’altro lato anche la speranza e il desiderio di ricostruirsi un’esistenza nel paese che li accoglierà.

Che tipo di aiuto può offrire lei a queste persone?
Nell’ambito professionale sicuramente l’ascolto. Ma svolgo anche un’attività di volontariato, che si basa su una rete di contatti che ho creato privatamente. Collaboro con tutta la rete di accoglienza italiana, che parte da Catania e arriva a Milano.

Ci parli di questa attività fra Catania e Milano. Che storia ha, da quanto tempo dura?
Dura da circa un anno ed è iniziata un po’ alla volta. Io seguivo le vicende generali della Siria, ma poi attraverso la rete ho iniziato a conoscere delle persone che lavoravano su questo terreno e così sono arrivata a incontrare persone che fanno un lavoro straordinario. A Catania c’è ad esempio Nawal Soufi che risponde alle telefonate delle persone che partono: queste hanno il suo numero e la chiamano quando sono in pericolo. A sua volta lei informa la capitaneria di porto sul numero di migranti, sulla loro posizione, le condizioni in cui si trovano, da dove sono partiti: quelle informazioni permettono alla Guardia costiera di intervenire. Quando le persone lasciano Catania hanno diverse destinazioni, però lo snodo principale è Milano. Il loro viaggio le porta verso nord, principalmente verso la Svezia, ma anche la Germania, il Belgio e l’Inghilterra. Sanno esattamente dove vogliono andare. Il problema è che le leggi europee non glielo permettono, non permettono di farlo legalmente, e ciò finisce per alimentare la filiera dei passatori e della criminalità organizzata.

Che cosa la spinge a continuare a fare quello che fa?
A casa mia la solidarietà era abitudine. La prima famiglia che abbiamo ospitato era una famiglia di persone del Marocco che avevano ricevuto un foglio di via, io avevo 13-14 anni. Non avevamo una casa grande, non eravamo persone ricche, però abbiamo vissuto insieme per 4-5 mesi fino a che la situazione non si è risolta. Era molto semplice. Si buttava un po’ più di pasta, si  faceva un po’ più di riso, non si faceva il brodo di maiale, ma si faceva quello di pollo.

Sui migranti circolano molti luoghi comuni, spesso ripetuti: sono persone che usufruiscono di troppe cure, c’è un dispendio eccessivo di fondi pubblici per aiutarli. Di fronte ad affermazioni di questo genere, lei come reagisce?
L’esperienza pratica ci dice che dei buoni percorsi di integrazione portano ottimi risultati. Il fatto di non investire in realtà è un boomerang: se non investiamo su queste persone non permettiamo loro di acquisire quegli strumenti che gli permetterebbero di diventare una ricchezza anche per noi. Siamo tutte persone e non importa che uno nasca in Eritrea o che nasca ad Arbedo. Abbiamo tutti gli stessi diritti e la ricchezza mia deve essere la ricchezza dell’altro. Io sono convinta che aiutando l’altro abbiamo delle possibilità e delle opportunità anche per noi. La società che io immagino, sa fare della difficoltà dell’altro una ricchezza per sé stessa.

In che misura influisce sulla sua motivazione il fatto di avere sposato un curdo?
Mio marito è iracheno-curdo. All’inizio quando vedeva la polizia si metteva in allarme perché gli ricordava situazioni spiacevoli che aveva vissuto sulla sua pelle. E poi la lontananza dalla famiglia, la difficoltà di capire come funziona la nostra società, come ci si comporta, le feste, l’educazione dei figli… Lui viene da una famiglia tollerante dal punto di vista religioso, ma tradizionale. Io vengo da tutt’altra esperienza: mia madre si è separata due volte, era una femminista, indipendente. Il matrimonio è stato la base su cui ho potuto costruire, credo, una certa capacità di muovermi in maniera dinamica tra le culture.

La differenza di culture e tradizioni, tra lei e suo marito, non suscita mai discussioni?
Ci sono degli aneddoti divertenti, tanto che a volte penso che potremmo fare una sit com sulla nostra famiglia! Per esempio c’è stato un periodo in cui mi divertivo molto a mettere in crisi mio marito quando faceva le abluzioni, prima della preghiera. Se un musulmano viene toccato, dopo essersi purificato, deve tornare a fare le abluzioni…  Dato che ero un po’ infastidita dal fatto di essere considerata “contaminante”, per dispetto mi ero messa ad aspettarlo, fuori dal bagno, e quando usciva lo toccavo per costringerlo a fare di nuovo le abluzioni. Adesso fa le preghiere molto prima che io mi svegli! (intervista di Paolo Tognina; adattamento di Luisa Nitti)

Tratto da: http://www.voceevangelica.ch/

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