Tunisia, il dramma dei “non rifugiati”

Lo scrittore profugo Othman ha scritto il suo libro nel campo profughi di Choucha, nel sud della Tunisia, alla frontiera con la Libia. Ci vive da due anni. E da uno, ha cominciato la redazione.
Non è il trascorrere lento delle sue giornate nella tenda, nel deserto del sud, a riempire le cartelle di parole e illustrazioni. Ma le sue conoscenze di piante medicinali. 
Tutte le proprietà delle piante e come ognuna di esse può curare. Dal raffreddore ad un tumore. Come il melograno o il finocchio possano garantire il benessere, quale frutto rende più sana la gravidanza di una donna. Il manoscritto è corredato di foto e nomi in latino, accanto a quelli in arabo. Othman, un’esistenza, un viaggio e un sapere antico.
Dal Ciad alla Libia e poi in Tunisia. Ora sente la mancanza dei i suoi libri, che ha lasciato a Zuwara, vicino Tripoli, quando la guerra nel febbraio 2011 l’ha costretto ad abbandonare casa, lavoro e famiglia. Ma la corrispondenza continua, con un medico in America e uno in Iraq a correggere la bozza. “Quei pochi soldi rimasti li spendo in Internet, per confrontarmi con loro e continuare il lavoro”.
Nessuna delle piante studiate e catalogate da Othman, tuttavia, può curare il suo malessere attuale. Il suo status irrisolto, in quanto richiedente asilo, la cui domanda è stata rigettata dall’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR). È ormai un “non rifugiato”, senza diritto ad assistenza umanitaria. Prima la guerra, poi l’attesa, infine il diniego.
Othman è rimasto alle porte del deserto, con le temperature torride estive, le frequenti tempeste di sabbia e i geli della notte e dell’inverno. Due anni trascorsi nelle tende del campo, che nel prossimo giugno verranno smantellate, come previsto dalle autorità tunisine. “E dopo, ci butteranno a mare?”. Non è l’unico in questa situazione. Un centinaio di “non rifugiati” è con lui a Tunisi, un altro centinaio è rimasto nel campo. Sono arrivati nella capitale per protestare contro la riduzione dei servizi assistenziali a cui devono far fronte ormai da quattro mesi, in attesa della smobilitazione. Si sono riuniti in sit-in di fronte l’ufficio dell’UNHCR, come Othman, la barba lunga e un sorriso accogliente, ma le lacrime agli occhi, silenziose e amare, di chi a Choucha non ci vuole tornare. Neanche Meriem, una signora sudanese con il nipote Mohammad e la cugina Hannen vogliono andare via dalla capitale. Donne, bambini, anziani e soprattutto giovani. Da Sudan, Gambia, Nigeria, Ciad, Liberia, Ghana, Costa D’Avorio, Bangladesh. A nessuno di loro è stato concesso lo status di rifugiato, ma non si arrendono. Vogliono avere risposte, chiedono che i loro dossier per la domanda d’asilo siano ritrattati, attendono una soluzione.
Le sollecitazioni, come le proteste, non sono rivolte soltanto alla rappresentanza delle Nazioni Unite, ma a tutti quei paesi che tramite l’intervento Nato in Libia si sono resi responsabili del loro esodo forzato e della loro drammatica situazione. Sono rimasti senza cibo né medicinali a Choucha, non possono rientrare in patria né tantomeno a Tripoli, dove l’instabilità del contesto socio-politico non permette ancora un loro re-insediamento (d’altronde la FIDH ricordava, qualche mese fa, che molti cittadini sub sahariani sono tuttora detenuti dalle milizie).
Anche il governo tunisino è chiamato in causa e con esso la società civile, ignara in gran parte della problematica dei rifugiati che investe il loro paese. Il diritto d’asilo non è ancora compreso infatti nella legislazione nazionale e la sua introduzione non sembra essere tra le priorità nell’agenda del governo. Dopo un confronto durato due giorni, senza nessuna soluzione in vista, gli organizzatori del sit-in hanno infine deciso di rientrare verso sud. Un ritorno al deserto, in attesa della prossima iniziativa. L’appuntamento è fissato per marzo, sempre nella capitale, quando i “non rifugiati” torneranno a far sentire la loro voce durante il Forum Sociale Mondiale.

Marta Bellingreri
Fonte: Osservatorioiraq.it

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