Bollate, il carcere dove le condanne non si scontano a porte chiuse

Celle aperte e iniziative culturali. Fra i 1.200 detenuti c’è chi lavora all’esterno e chi è tornato a studiare. Una struttura-simbolo di reclusione rieducativa. E non solo punitiva. Per uscire e non ritornare! Tutti in questo mondo hanno bisogno di una seconda possibilità per riscattare la loro esistenza, c’è lo ha insegnato Gesù quando ha lasciato il gregge per andare a salvare pecorella smarrita.

Il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni, scriveva nel 1866 Fëdor Dostoevskij. Se fosse così, quella italiana sarebbe tra le più incivili. E la condanna della Corte europea dei diritti umani di Strasburgo arrivata a gennaio nei confronti dell’Italia «per trattamento inumano e degradante» di sette carcerati detenuti nel carcere di Busto Arsizio e in quello di Piacenza, ne è l’ennesima prova.

Per capire però che un altro modello di carcere è possibile basta andare alla periferia Nord di Milano e visitare la casa di reclusione di Bollate.
1.200 CARCERATI IN UNA STRUTTURA APERTA. Nato nel 2000 come istituto a custodia attenuata per detenuti comuni, oggi Bollate ospita 1.200 carcerati, che vivono insieme in una struttura aperta: le porte delle celle si chiudono solo la sera e durante il giorno tutti possono girare liberamente da una sezione all’altra. Qui, a differenza della maggior parte delle carceri italiane, non ci sono problemi di sovraffollamento: 12 educatori e un tipo di vigilanza dinamica permettono alla polizia penitenziaria di gestire l’istituto con poco più di 400 unità.
«Nessuno miracolo», spiega subito il direttore del carcere Massimo Parisi prima di aprire le porte della struttura a Lettera43.it. «Il nostro progetto rispetta semplicemente la Costituzione italiana, che prevede la funzione di rieducazione e reinserimento del carcere» (guarda l’intervista video).
DARE UN SENSO ALLA PENA. Per questo sin dall’inizio Bollate «è stato concepito con una vocazione trattamentale», continua Parisi. «Bisogna dare un senso alla pena, perché solo così si migliora anche la credibilità dello Stato».
Nel carcere c’è una commissione cultura costituita dal personale, dagli educatori e dagli stessi detenuti che propongono iniziative culturali, attività lavorative e sociali.
«Bollate non certo è un paradiso», puntualizza il direttore, «ma delle disfunzioni se ne parla al tavolo con i detenuti, che hanno anche forme di rappresentanza interna. Così i problemi non sfociano mai in episodi di protesta, ma si risolvono attraverso il dialogo».

«Un carcere diventa duro non perché ci sono le sbarre, ma per le persone»

Clicca sull'immagine per guardare l'intervista a Gualtiero Leoni.(© di A.Demurtas e A.Garnero) Clicca sull’immagine per guardare l’intervista a Gualtiero Leoni.

Per rendersene conto basta camminare lungo i corridoi delle varie sezioni dove i detenuti si fermano a chiacchierare, passano per andare a lavorare, scherzano con le guardie o passeggiano insieme con i parenti che sono andati a trovarli.
Per alcuni di loro c’è anche la possibilità di trascorrere alcune ore nella ‘casetta’: un ambiente arredato come fosse una casa, dove i detenuti accolgono i loro figli, mangiano e giocano insieme, cercano di recuperare il legame affettivo, anche se solo per il tempo di una visita.
RICOSTRUIRE I LEGAMI AFFETTIVI. Perchè chi commette un reato e sconta la propria pena non solo perde la libertà ma spesso anche l’amore dei propri cari. «Un carcere diventa duro non perché ci sono le sbarre, ma perché le persone lo rendono tale: tutto dipende dai carcerati e dal rapporto con la sorveglianza, che qui per fortuna è ottimo», racconta a Lettera43.it Gualtiero Leone (guarda l’intervista video).
Milanese, in carcere dal ’94, deve scontare ancora 20 anni di reclusione e di prigioni ne ha viste tante: Marassi, San Vittore, Opera. «Contesti più duri nei quali stavo bene perché allora rispecchiavano il mio modo di essere», spiega.
UNA PALESTRA PER PREPARARSI AL FUTURO. Col tempo però anche Gualtiero ha iniziato a mettersi in gioco, a capire. «Questo è un carcere innovativo che ti prepara al futuro, a far parte della società di cui magari non abbiamo mai fatto parte, perché non abbiamo voluto o perché ci si è trovati nel posto sbagliato al momento sbagliato», spiega. «Qui però ti danno un’altra possibilità, perché noi siamo parte della società anche se la gente non lo vuole accettare».
A Bollate Gualtiero lavora: fa parte della commissione cultura ed è iscritto al terzo anno di Scienze dell’educazione: «Lo studio aiuta ad aprire gli orizzonti, a riconoscere gli altri e prima di tutto se stessi». «Certo», ammette, «cambiare è difficile: sono sempre la persona di prima ma con pensieri diversi, perché sono convinto che siamo ciò che pensiamo e facciamo ciò che pensiamo».
LE SPESE DI MANTENIMENTO DA PAGARE. E qui lo strumento fondamentale per agire e pensare nel migliore dei modi è il lavoro «che permette di far percepire meglio le regole», dice Parisi.
Ma anche perché aiuta gli stessi detenuti ad auto-sostenersi. Ogni mese devono infatti pagare circa 56 euro di spese di mantenimento che vengono riscosse a fine pena attraverso una procedura tributaria. «Se invece hanno una busta paga i soldi sono recuperati mensilmente e quando escono non hanno alcun debito con lo Stato», spiega il direttore.
Oggi a Bollate sono quasi in 300 a lavorare per aziende o cooperative, che assumono i detenuti con le stesse retribuzioni che fanno all’esterno e in cambio ottengono locali in comodato d’uso e alcuni sgravi contributivi.

C’è anche chi lavora all’esterno (come Vallazasca)

Nel carcere di Bollate c’è il laboratorio di bigiotteria.

Inoltre ci sono anche 150 articolo 21, ovvero detenuti che ogni giorno escono per lavorare o studiare e tornano la sera. Tra questi non c’è solo Renato Vallanzasca, di cui hanno tanto parlato le cronache, ma anche Santo Tucci che il lavoro se l’ha creato da solo: in carcere ha un laboratorio artigianale e fuori vende i prodotti nel suo negozio che si chiama Il passo ed è ospitato in uno spazio del Comune.
IL DETENUTO VETRAIO E SCULTORE. La cooperativa sociale nata quattro anni fa a Bollate occupa oggi tre detenuti e altre quattro persone esterne. «Sono un vetraio, ma ora facciamo anche sculture in luce e bigiotteria, così possiamo far lavorare più persone. Bollate è questa», racconta Tucci mentre mostra i suoi lavori, «ti offre la possibilità di vedere la pena in maniera più costruttiva».
Per chi invece non può usufruire dell’articolo 21, è possibile lavorare anche in carcere dove c’è un call center della Telecom, uno della Tre, uno della polizia municipale del Comune di Milano, uno della Cafebon e uno della compagnia petrolifera Gulf.
ANCHE UNA COMPAGNIA TEATRALE. C’è un servizio di catering, la compagnia teatrale Estia con detenuti assunti come attori e una cooperativa che lavora per l’Expo. C’è la cascina Bollate (guarda l’intervista video) che si occupa del verde e un’associazione sportiva che si prende cura dei cavalli sequestrati e aspira a diventare un vero e proprio maneggio.
A lavorare non sono solo gli uomini ma anche le 90 detenute, che oltre ai call center, nella loro sezione femminile hanno una piccola bottega di bigiotteria gestita dall’associazione no profit Impronte, l’atelier sartoriale Alice e un laboratorio che si occupa del controllo di guarnizioni per elettrodomestici.

Su 10 detenuti, una volta scontata la pena, otto non sono più rientrati

Bollate: l'entrata del carcere riservata alle donne.Bollate: l’entrata del carcere riservata alle donne.

Un carcere operoso dove «si cerca di sfruttare il tempo della pena eliminando l’ozio e preparando il detenuto per l’uscita», dice Parisi. E i risultati confermano la bontà del progetto: secondo le statistiche «dall’apertura a oggi, su 10 detenuti, una volta scontata la pena, otto non sono più rientrati», vanta soddisfatto il direttore.
Senza dimenticare che però c’è anche una parte che non è riuscita a reggere la misura alternativa pur non commettendo reato: «Sono soprattutto tossicodipendenti o alcolisti che a Bollate sono quasi 500». Per loro c’è anche un Sert (servizio territoriale per la tossicodipenza e l’alcolismo) all’interno. Così come ci sono psicologi, seppur pochi, che per legge devono seguire i 380 sex offender (ossia coloro che sono accusati di reati sessuali).
L’ALLARME PER LA RIDUZIONE DEI FONDI. Insomma i servizi non mancano, ma la riduzione dei fondi, soprattutto sulle forniture igienico sanitarie, ha toccato anche il carcere di Bollate. Che però, grazie alle donazioni di privati come Leroy Merlin, Decathlon, la fondazione Monzino, riesce a garantire attività e laboratori.
E così la palestra, le sale di musica, la scuola alberghiera – che per il 2013 funziona con i privatisti e dal 2014 sarà un istituto a tutti gli effetti – sono attività rese possibili grazie a risorse private a fondo perduto, che permettono così allo Stato di spendere appena 500 mila euro all’anno, stipendi esclusi, per mantenere Bollate e allo stesso tempo offrire ai carcerati una qualità della vita migliore.
SALA MUSICA E RADIO. Ma al di là dei costi e dei risultati, basta parlare con i detenuti per capire come un carcere possa davvero ‘cambiare musica’. A partire dalle Officine musicali freedom sounds. Un progetto che permette di suonare ogni giorno in una sala musica dotata di tutti gli strumenti.
«Una volta ci siamo anche esibiti a Milano per la raccolta dei fondi per i terremotati dell’Emilia», racconta Marco Caboni, detenuto, mentre mostra orgoglioso un cd autoprodotto dal titolo augurante Tutti fuori. Anche se per ora è solo la loro musica ad attraversare le sbarre e andare in onda ogni domenica su Radio Popolare durante la trasmissione Jailhouse rock.
BIBLIOTECA APERTA. E quando non sono le note musicali, ci sono i libri a portarli fuori dal carcere, anche solo con l’immaginazione: dal 4 marzo i detenuti potranno entrare in biblioteca da soli, non più accompagnati. «Un’occasione per responsabilizzarli, saremo molto rigidi e se sbagliano la chiudiamo, qui non si fuma neanche alla finestra», spiega il bibliotecario che gestisce lo spazio insieme con 9 carcerati.
I libri che vanno per la maggiore sono i gialli, «a partire da Wilbur Smith», racconta il bibliotecario da 40 anni in servizio nelle carceri lombarde. «A Opera andavano più i libri di filosofia», ricorda, «ma in generale in carcere la cultura è bassa, qui c’è gente che non sa né leggere né scrivere».
Circa 150 detenuti fanno le superiori e una settantina frequentano le medie, «quindi non puoi chiedere a uno di leggere se non ha mai preso un libro in mano, però che importa, impareranno qui».

Parisi: «Prima o poi i detenuti escono dal carcere. Noi cerchiamo di prepararli»

L'albanese Arben Mulan, in carcere da quattro anni e sei mesi.L’albanese Arben Mulan, in carcere da quattro anni e sei mesi.

Ma qui c’è anche chi ha già il diploma e fa l’università: Arben Mulan, albanese, in carcere da quattro anni e sei mesi, dopo San Vittore e Opera è arrivato a Bollate per scontare gli ultimi quattro anni di pena e qualche settimana fa ha dato i suoi primi esami in Scienze dei servizi giuridici. «Qui puoi studiare e fare attività che ti preparano per trovare un lavoro quando esci» (guarda l’intervista video).
UN CORSO PER OPERATORE DI RETE. Arben è iscritto a un corso Cisco per diventare operatore di rete: «Facciamo gli esami online», spiega. Bollate è infatti l’unico carcere al mondo che si collega con la sede centrale dell’accademia a San Josè in California.
Arben partecipa anche al gruppo della trasgressione dove detenuti e universitari si incontrano per confrontarsi e ragionare sulle varie forme della trasgressione.
«Nelle altre prigioni dove sono stato non c’era spazio per fare tutte queste cose e alla fine con gli altri detenuti si parlava solo di delinquenza, di quello che avevi fatto tu o loro. Invece qui ti danno davvero un’altra possibilità».
LE CRITICHE AL CARCERE. Un modello quello di Bollate che spesso ha destato non poche polemiche proprio per le attenzioni e i servizi offerti ai detenuti. «Il nostro obiettivo non è essere paternalistici», precisa Parisi, «ma costruire un ponte tra dentro e fuori e garantire un clima di vivibilità all’interno, niente di più».
Secondo il direttore, invece, spesso «l’orientamento dell’opinione pubblica è umorale, perché il carcere viene visto più nel suo aspetto sanzionatorio e punitivo, quando invece sappiamo benissimo che la Costituzione pone l’accento su quello rieducativo. E noi come istituzione dobbiamo dimostrare e lavorare affinchè le persone una volta rientrate nella collettività non commettano reati».
OLTRE LA PUNIZIONE L’AIUTO. Un modus operandi che «sappiamo essere soggetto a critiche, ma dobbiamo dimostrare che l’istituzione non è solo punitiva, ma cerca anche di aiutarti», conclude Parisi. «Tutti devono capire che i detenuti possono essere delle risorse. E soprattutto che prima o poi devono uscire dal carcere. Noi cerchiamo semplicemente di prepararli».

 


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