Siamo tutti a rischio. Vittime di una rivoluzione demografica che sta terremotando le nostre esistenze senza che ce ne sia piena consapevolezza. La stessa Germania, alfiere del rigore in Europa ma anche protagonista di un fenomeno che vede da circa 35 anni la generazione dei figli ridursi a circa un terzo rispetto a quella dei genitori, secondo recenti dati Ocse potrebbe ritrovarsi a crescere meno dell’1% annuo.
Sarebbe (se accadesse) il segno più eclatante dell’eclisse che si sta diffondendo nel Vecchio Continente. Figlia – è il caso di dirlo – di una recessione nata sulle piazze finanziarie di matrice anglosassone, ma che ha anche cause che vengono da lontano. I motori principali della crescita risiedono, nella teoria economica “classica”, nelle tendenze del lavoro e del capitale e nella loro produttività. È su questi fattori che si affannano a dibattere politici ed economisti. Poi c’è il motore di riserva: la popolazione appunto, che esercita un benefico influsso tramite gli effetti della sua composizione. La crescita è concentrata oggi nei Paesi in via di sviluppo, dove si espande soprattutto la popolazione giovane. Lo attesta qualche dato generale relativo a due Paesi “rampanti” come l’India e il Brasile: nel primo, nel 2008, quasi una persona su tre aveva meno di 14 anni, contro l’una ogni 7 dell’Italia. E in Brasile la quota di popolazione in età di lavoro è salita di oltre l’8% fra il 1985 e il 2008; in Italia invece è calata di quasi 1,7 punti. Meno giovani si traducono in una minor spinta all’innovazione: non per niente la Ue ha clamorosamente fallito l’obiettivo che si era data 10 anni fa, nella strategia di Lisbona, di portare almeno al 3% del Pil le spese in ricerca e sviluppo. All’estremo opposto, la Cina ha più che raddoppiato, dal 1996 a oggi, le risorse investite.È un fenomeno “oscurato”, quello della correlazione fra un aumento moderato della popolazione e quello dell’economia, ma ogni tanto emerge. Negli Stati Uniti se ne sono occupate anche due autorevoli riviste come Forbes e Foreign Policy: su quest’ultima il demografo Phillip Longman ha sostenuto che il mondo oggi rischia la «sottopopolazione». Cioè l’inverso rispetto alla dimensione dominante finora: sono occorsi infatti oltre 50mila anni perché, circa 200 anni fa, la popolazione mondiale raggiungesse un miliardo di persone. Nel solo XX secolo, invece, si è quadruplicata. Ma lo sviluppo economico l’ha sopravanzata. E non c’è stata alcuna penuria di beni e servizi. Anzi, a livello pro capite, fra il 1950 e il 2000, si sono in media triplicati. Le teorie malthusiane sono state così sconfitte. E nel club mondiale degli economisti crescono gli studiosi “pro-incremento demografico”: come il premio Nobel (nel ’92) Gary Becker, convinto assertore dei «vantaggi di una crescita moderata della popolazione». Anche per evitare di concentrare il carico fiscale sui più giovani, costretti a pagare più tasse per finanziare i servizi destinati alla quota crescente di anziani. E per scongiurare la prospettiva di ritrovarsi «pochi, più vecchi, più poveri», come fu già scritto da Avvenire in un’inchiesta (7 puntate). Correva l’anno 1987…
Tratto da Avvenire.it
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