Decommercializzare l’infanzia è possibile…

Abbiamo tutti coscienza del fatto che la società in cui viviamo soffre di una esasperata, patologica spinta al consumo. E sappiamo tutti altrettanto bene come questa tendenza non sia naturale, per così dire, ma creata artificialmente dalla macchina della pubblicità che lungi dall’essere uno strumento di informazione, ha come obiettivo quello di creare il bisogno, stimolare il desiderio. Cibi, abbigliamento, oggetti, non sono più mezzi necessari alla qualità della nostra vita, sono diventati obiettivi per i quali spendiamo la nostra esistenza.Lo sappiamo, ce ne lamentiamo, qualche volta ci ribelliamo, più spesso ci lasciamo trasportare indolenti, protestando mentre accumuliamo elettrodomestici, tecnologie, accessori e stress.

Ci lamentiamo anche che bambini e adolescenti di oggi sembrino totalmente incapaci di apprezzare la semplicità, non sappiano fare a meno dei videogiochi, non sappiano apprezzare una pietanza fatta di ingredienti naturali e non proveniente dal surgelatore di un supermercato. Ci lamentiamo che siano sempre più colpiti da disturbi dell’affettività e dell’attenzione.

Non sembriamo però dar caso alla possibile connessione tra le due cose. Sappiamo, insomma, che la pubblicità condiziona e seduce, ma non ci preoccupiamo dell’effetto che essa ha sui minori e sul loro stile di vita.

Juliet B. Schor, economista e docente di sociologia, si occupa da tempo delle degenerazioni provocate, sulla qualità della vita, dal consumismo. In Nati per comprare. Salviamo i nostri figli, ostaggi della pubblicità analizza gli effetti, le cause, le strategie del marketing applicato al mondo dell’infanzia.

Born to buy (titolo originale a cui si aggiunge nell’edizione italiana il significativo sottotitolo) è un’indagine condotta all’interno del mondo del marketing rivolto a bambini ed adolescenti. Indagine non recentissima, vista la grande velocità con cui cambiano i prodotti in voga, siano essi alimenti, marche di vestiario o meglio ancora tecnologie, conclusa nel 2003, centrata sul mercato statunitense. Ma osservare il mercato americano è istruttivo perché, pur con le sue peculiarità, è sempre rivelatore di quanto a distanza di qualche anno diventerà attuale in Europa. E comunque, l’impostazione di fondo, per quel che riguarda le dinamiche sociali ed economiche, è unica in quel mercato globale che è diventato (o che potenti forze spingono per far sempre più diventare) il pianeta.

Ingenuamente ci illudiamo che il problema della pubblicità si riduca al fatto di allettare, sedurre, alla peggio ingannare con informazioni fasulle, tutte cose dalle quali guardarci con spirito critico. La realtà è ben più complessa e lo è in modo drammaticamente serio riguardo ai bambini, denuncia la Schor.

Laddove cent’anni fa si trattava di convincere il genitore ad acquistare il prodotto per il figlio, è gradatamente aumentata la considerazione del ruolo decisionale del minore stesso all’interno delle dinamiche familiari e non solo più per prodotti che lo riguardino direttamente. Il bambino condiziona con le proprie preferenze le decisioni degli adulti sull’acquisto della prossima auto, sulla meta della prossima vacanza, sul prossimo cellulare, televisore o computer. Perciò il marketing ha sviluppato negli anni, con sempre maggiore cura, modalità di comunicazione specificamente dirette ad esso.

La realtà che ci ritroviamo è quella di una generazione di minori attenta come mai prima d’ora al marchio, al logo invece che all’oggetto in sé, che ha sostituito i tradizionali sogni di essere pompiere, astronauta o stilista con quello di essere ricco e avere molto denaro. Un altro sintomo inquietante è quello di un continuo assottigliamento del confine tra mondo adulto e infantile, con la penetrazione sempre più massiccia di atteggiamenti e modalità “da grandi” tra le abitudini di bambine e bambini. Pensiamo soltanto a certe minigonne e ai cosmetici, oramai normalissima dotazione per bambine di pochi anni.

È il tweening, un processo manipolato, con il quale si tende ad allargare sempre più la fascia d’età della pre-adolescenza, facendola partire sempre prima, l’effetto descritto tra gli addetti ai lavori come KAGOY, Kid Age Getting Older Younger (i bambini diventano grandi prima). Così quello che va bene a 14 anni andrà bene prima o poi a 10 anni. Il linguaggio del marketing, prima di tutto televisivo, diventa così sempre più audace rivolgendosi a fasce d’età sempre più basse.

È una vera e propria guerra che si svolge entro le stesse mura domestiche, pianificata nei minimi dettagli e preparata con le più sofisticate tecnologie. Una battaglia che coscientemente, prima di tutto, cerca di neutralizzare il nemico più pericoloso, l’adulto, il genitore. Il messaggio che arriva, attraverso i messaggi pubblicitari rivolti ai più giovani, è che i grandi sono noiosi e sciocchi, spesso anche crudeli e meritevoli di essere ingannati. Pensiamo ai mille spots in cui mirabolanti caramelle o bibite trasformano la noiosissima lezione in classe in una scatenata festa alle spalle del pedante professore girato a scrivere alla lavagna. Oppure si tratta del robot armato fino ai denti che trasporta in una dimensione avventurosa il giovane possessore mentre il genitore citrullo tiene la solita rampogna sulle buone maniere. E così via. Il fantastico mondo degli oggetti, delle ipercaloriche e zuccheratissime merende, è a portata di mano, basta solo aggirare l’ostacolo dell’adulto, dicono le pubblicità.

Age compression, Dual messaging, Nag factor, Trans-toying sono parte del bagaglio “teorico” del marketing rivolto ai bambini a testimonianza di quanta specializzazione ci sia in questo campo d’azione. Il vessillo del diritto all’autonomia di bambini ed adolescenti è sventolato ad esempio da canali televisivi dedicati a queste fasce d’età, e nel libro della Schor ritornano costantemente i nomi di Nickelodeon e MTV, attraverso i quali passano costantemente messaggi di marketing che condizionano i più piccoli.

Il messaggio libertario è quantomeno sospetto visto che è formulato e promosso dagli stessi adulti e soprattutto si fonda sul profitto di aziende produttrici di oggetti e alimenti. E infatti le tecniche di manipolazione di questa pretesa autonomia dei minori si moltiplicano e si affinano quotidianamente. Ad esempio con la presa di coscienza dell’aumentato spirito critico delle giovani generazioni e con il graduale allontanamento dal media televisivo. La battaglia continua fuori casa, nelle strade, nei campi di calcetto, nelle scuole, negli oratori, dovunque si trovino i giovanissimi non dipendenti dai programmi televisivi.

Continua il linguaggio bellico a testimoniare la lucida determinazione con cui si conduce una campagna promozionale, laddove il bersaglio (target) deve essere “costantemente bombardato” e questo attraverso strategie di attacco che aggirano le sue difese. Così si reclutano agenti tra le stesse file nemiche, si ingaggiano bambini per promuovere tra i propri amici e compagni la tale merendina o il tale nuovo videogame. Coscienti che il più efficace mezzo promozionale è il passaparola (Buzz marketing), ci si intrufola in modo subdolo tra i più giovani per “diffondere il virus”. Si selezionano i “soggetti alfa” (qualche volta detti anche “cuccioli alfa” a testimonianza dell’altissimo rispetto che anima tali strategie), quelli alla moda, che gli altri seguono e ammirano, e li si arruola per la promozione del prodotto.

Si inquina il luogo sacro dell’amicizia nelle menti dei più giovani sporcandolo con la prospettiva del profitto (di pochi spiccioli, a volte soltanto di qualche gadget). Si neutralizza il diritto di scelta entrando di forza, con la compiacenza (ben retribuita) delle istituzioni pubbliche e private, nei luoghi in cui i giovani hanno minore spazio decisionale, come nelle scuole, nelle associazioni sportive, gli ospedali. Sotto il mantello da pecora del progetto umanitario, sociale, educativo, si pubblicizzano marchi o si raccolgono preziose informazioni tra giovanissimi che non possono rifiutarsi di collaborare, magari all’insaputa degli stessi genitori.

Il libro della Schor offre una prospettiva di indagine ampiamente documentata, qualche volta forse un po’ troppo schiacciata sulla prospettiva americana per un pubblico italiano, ma stimola spunti di riflessione importanti sulla condizione dei nostri bambini e giovanissimi, sui disagi affettivi e psicologici che li affliggono, diretta conseguenza della spasmodica corsa al consumo cui sono spinti.

Perché vi è una diretta connessione tra disagio comportamentale e cultura del consumo sfrenato. Ma, se è dimostrato che i valori del consumismo siano causa di molti disturbi psicosomatici tipici della nostra contemporaneità, in nessun caso l’indagine ha mostrato il percorso inverso: l’esistenza di situazioni di disagio non porta alla cultura del consumo.

Nell’ultimo capitolo l’autrice suggerisce una serie di strategie per “decommercializzare l’infanzia”, che richiedono prima di tutto un modo di essere adulti e genitori più responsabile, che sappia essere di buon esempio, più vigile e collaborativo, in quanto una tale battaglia non può essere condotta in modo isolato. E poi una serie di necessarie modifiche da attuare a livello legislativo.

Che riflessione fare su tutto questo come cristiani? Quanto spesso proprio tra le nostre fila si manifesta la più spensierata e allegra adesione a stili di vita consumistici?

Troppo raramente si elevano di tra noi le voci critiche contro un mondo chiaramente orientato a fare di ogni individuo niente altro che un passivo strumento nelle mani di poteri enormi. Di poteri che agiscono in modi che qualsiasi laico di buona coscienza non esiterebbe a definire diabolici.

L’evangelo è fin dal principio messaggio di libertà, entro un mondo che ci vuole schiavi. Come uomini liberi dobbiamo e possiamo proteggere giovani e bambini pregando per loro.

Ma anche testimoniando, con la nostra stessa vita, della libertà che abbiamo ricevuto a prezzo del sacrificio di Cristo.

Recensione di Daniele Mangiola, DiRS-GBU

Juliet B. Schor Nati per comprare. Salviamo i nostri figli, ostaggi della pubblicità, Apogeo, Milano, 2005  – € 18,00.

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