G20 religioni, Winkler: “Affrontare il razzismo sistemico”.

Roma (NEV), 16 settembre 2021 – C’è un razzismo che è sistemico, negli Stati Uniti, un Paese “nato sulle spalle della schiavitù, in terre che sono state rubate e depredate”. Così

Jim Winkler, presidente del Consiglio nazionale delle chiese di Cristo negli USA (NCCCUSA), protagonista della seconda intervista ad esponenti protestanti mondiali, a margine dell’Interfaith Forum che si è svolto a Bologna nei giorni scorsi.

Che cosa vuol dire che il razzismo negli Usa è “sistemico”?

“Nella nostra società un gran numero di bianchi nega perfino l’esistenza del razzismo. Questo indica già di per sé l’intensità del razzismo negli Stati Uniti. Molte persone confondono i pregiudizi, i propri orientamenti e visioni, col razzismo. Tutti hanno qualche pregiudizio personale di qualche tipo. Nel contesto degli Stati Uniti, tuttavia, il potere più il pregiudizio equivalgono al razzismo. E nella nostra società, il potere è davvero controllato dai bianchi. Ecco come si diventa complici di questo sistema. Le forme in cui si esprime sono varie: da dove e se si può possedere una casa, all’accumulo di ricchezza, all’assistenza sanitaria, fino a quanto maggiore è la probabilità di essere fermati dalla polizia.

Forse la situazione è migliorata, rispetto a quando ero più giovane. Ma rimane un problema molto serio nella nostra società. Quindi, quando ci sono episodi gravissimi – mi riferisco  all’omicidio di Michael Brown, o a quello di George Floyd – quando vedi l’intensità delle proteste, della frustrazione, della rabbia, se sei una persona bianca, devi anche comprendere che vi è qualcosa di più profondo. C’è una rabbia che deve essere affrontata. Molte persone non vogliono farlo, non ne capiscono la gravità. Dicono: “Beh, ma io non sono razzista”. E’ un vecchio problema che non è mai davvero scomparso. Perché le persone non possono semplicemente vivere insieme, la natura sistemica del razzismo deve essere affrontata prima di poter andare avanti. Dobbiamo analizzare il problema in un contesto e sistema più ampio, che va corretto e cambiato. Oggi abbiamo una comprensione maggiore rispetto a molti anni fa di tali fenomeni. Ma c’è ancora molta strada da fare.

Pochi giorni fa l’anniversario delle Torri Gemelle. Come sono cambiati gli Stati Uniti in questi 20 anni? Cosa ricorda di quel giorno?

Per me l’11 settembre 2001 è stato un giorno molto, molto importante. Quel giorno ero a Capitol Hill, dove lavoro ancora. Dall’altra parte della strada rispetto al Campidoglio c’è un edificio di proprietà della Chiesa metodista, un centro ecumenico, dove il Consiglio Nazionale delle Chiese ha i suoi uffici, come molte altre chiese. A quel tempo, ero responsabile dell’edificio, come metodista, ricordo che radunai tutti, per un momento di preghiera. Poi abbiamo saputo del crollo della seconda torre e ho detto a tutti di tornare a casa. Sentivo che era mia responsabilità rimanere nell’edificio per garantire che tutto fosse sicuro. Ricordo che gli edifici governativi furono rapidamente bloccati. Tantissimi agenti di polizia per strada, non avevano un posto dove andare, per usare il bagno, per chiamare le loro famiglie, ripararsi dal caldo e mettersi all’ombra. Così siamo diventati quasi un luogo di rifugio per gli agenti. Subito dopo abbiamo avuto un servizio di culto e anche diversi giorni dopo, per commemorare, per esprimere il nostro dolore, la nostra tristezza. Da allora per diverso tempo è stato un momento molto emozionante andare al lavoro ogni giorno a Capitol Hill. Anche guidare davanti al Pentagono è stato diverso. All’epoca insegnavo anche in una classe della scuola domenicale in una chiesa locale, vicino a Washington DC, avevo sia persone dell’FBI, che media, altri che lavoravano al Pentagono, io stesso conoscevo persone che sono morte, e negli Anni ’80 tra l’altro ho lavorato al World Trade Center…L’11 settembre era ed è una questione molto personale. Ma al di là dell’intensità emotiva del momento dobbiamo capire che gli attacchi sono avvenuti in un contesto storico. Le cause profonde di quegli attacchi risiedono nella politica estera americana e occorre affrontare queste cause alla radice.  Molte persone hanno negato questa tesi, volevano semplicemente vendetta.

La nostra proposta era, piuttosto che invadere l’Afghanistan, quella di fare, attraverso le istituzioni internazionali, uno sforzo per portare davanti alla giustizia i responsabili dell’attacco, e metterli sotto processo per quello che hanno fatto. Distruggere – non necessariamente militarmente – la loro rete terroristica. Invece, gli Stati Uniti hanno scelto di invadere l’Afghanistan. Sentivo che era un errore molto grave, una decisione al di fuori dei confini del diritto internazionale. Una scelta che ha vanificato la forte solidarietà che il mondo aveva al tempo con gli Stati Uniti e contro questo estremismo. Ho guidato una delegazione di esponenti di fedi diverse in Pakistan e mi sono espresso poi anche sull’Iraq…Chiunque ha buon senso può capire come furono prese decisioni che incarnavano rabbia, furia e vendetta. E quindi personalmente credo di poter dire che avevamo ragione. E George Bush si sbagliava. Abbiamo partecipato a proteste, manifestazioni e sforzi di ogni genere per fermare la guerra, soprattutto in Iraq. Ho sempre pensato che la guerra contro l’Afghanistan fosse sbagliata.

La war on terror cominciò proprio quell’11 settembre. Oggi, gli Usa si ritirano dall’Afghanistan. Come vede la situazione dei migranti afghani e di quelli da altri Paesi del mondo? 

Per l’Afghanistan come chiese negli Stati Uniti ci stiamo mobilitando per cercare di reinsediare i rifugiati. La mia chiesa locale, ad esempio, ad Alexandria, in Virginia, sta accogliendo in questi giorni una famiglia di rifugiati afghani. Stiamo raccogliendo cibo e vestiti, li stiamo aiutando a trovare un posto dove vivere, cerchiamo di assicurarci che i loro figli entrino a scuola, si spera che gli adulti trovino un lavoro. Non cercheremo di controllare le loro vite ma solo di assicurarci che siano pronti a vivere la loro vita negli Stati Uniti. Questa è un’esperienza molto comune in tutto il paese. Quindi il primo obiettivo è quello di soddisfare i bisogni immediati. Nel frattempo, continuiamo a chiedere che gli Stati Uniti siano il più generosi possibile con le persone che stanno cercando di emigrare nel nostro paese, persone provenienti dall’America Centrale, Guatemala, Honduras, El Salvador. E siamo molto angosciati dalle limitazioni che sono state poste all’immigrazione per i prossimi anni. Il governo Trump è stato disastroso. Ma anche oggi non vediamo i miglioramenti delle condizioni alle frontiere che auspicavamo. E dobbiamo ancora affrontare la xenofobia che serpeggia nella nostra società.

Sta dicendo che è già deluso dall’amministrazione Biden?

Sì, siamo delusi, lo abbiamo anche detto ad alcuni rappresentanti del governo. Gli abbiamo detto che speravamo ci sarebbe stato un vero cambiamento: vogliamo che più immigrati siano ammessi negli Usa, soprattutto quelli che vengono nel nostro Paese perchè temono per la loro vita ma anche a causa dello sfruttamento delle risorse. Un problema molto difficile che deve essere affrontato è questo: l‘unica ragione per cui le persone vogliono davvero lasciare il proprio paese è perché le condizioni di vita sono intollerabili. Perché lo sono? I fattori sono diversi ma gli Stati Uniti non sono innocenti. Abbiamo sfruttato i paesi dell’America Centrale per molti anni; li abbiamo usati come serbatoio per la manodopera a basso costo, come mezzo per avere piantagioni di banane, coca, caffè, cacao, in modo da poter godere di lussi economici nel nostro paese; sostenuto governi militari repressivi; fornito a quei governi armi e mezzi militari; avuto terribili politiche reazionarie che hanno reso intollerabile la situazione. Quindi, non solo dobbiamo accogliere i rifugiati, non dobbiamo solo consentire l’accesso a coloro che chiedono asilo, dobbiamo cambiare le nostre politiche nei confronti dei Paesi di provenienza e dell’America centrale, in particolare. C’è bisogno di un’alterazione sistemica e olistica delle politiche a livello governativo e contro il razzismo, da parte del nostro popolo.

Come hanno reagito le chiese negli Stati Uniti alla pandemia?

Sono molto orgoglioso di come le chiese che fanno parte del Consiglio Nazionale delle Chiese reagiscano hanno reagito, e continuano a farlo in modo molto responsabile. E’ vero, alcuni leader di chiesa e religiosi hanno detto che il covid è una finzione, non hanno mai smesso di riunirsi e pregare in presenza e hanno puntato il dito contro il governo, “reo” di reprimere la libertà religiosa. Ma le nostre chiese hanno capito invece che di fronte a una pandemia non potevamo continuare ad avere centinaia di persone in preghiera insieme, c’era il rischio di diffondere la malattia, occorreva essere responsabili. Per questo siamo passati a un culto virtuale, abbiamo fatto sacrifici, molti dei nostri edifici ecclesiastici li usavamo anche per l’assistenza all’infanzia, per gli alcolisti anonimi, per i boy e le girl scouts e così via, le nostre chiese sono luoghi occupati, funzionano come centri sociali. Abbiamo dovuto interrompere tutte queste attività, perché la salute pubblica è più importante di alcune delle nostre funzioni precedenti: è stata una sfida enorme. Col passare del tempo, molte delle nostre chiese sono diventate anche centri per le vaccinazioni e luoghi di cooperazione coi dipartimenti sanitari. Abbiamo condiviso informazioni con la popolazione, sul distanziamento sociale, le mascherine, la prevenzione…Oggi c’è la speranza di poter tornare a pregare insieme. Molte delle nostre chiese si stanno muovendo in quella direzione, con cautela. Vedremo come andrà l’andamento della pandemia. Ad ogni modo molte persone negli Stati Uniti si sentono arrabbiate, sentono la fatica di quest’ultimo anno. Per fortuna, l’amministrazione Biden ha affrontato in modo responsabile l’emergenza, anche relativamente ai vaccini.

Quali sono le principali sfide per le chiese nordamericane?

Penso che la prima sfida sia proprio il Covid, il superamento dell’emergenza sanitaria. Dobbiamo essere responsabili e incoraggiare la nostra gente ad esserlo. In secondo luogo dobbiamo affrontare la profonda polarizzazione esistente nella nostra nazione, indubbiamente peggiorata molto negli ultimi anni. Dobbiamo dire alle persone che solo perché non siete d’accordo, politicamente, non significa che dovete odiarvi l’un l’altro. E poi stiamo esortando il nostro governo ad essere generoso: a dare assistenza economica ai disoccupati, migliorare il sistema sanitario affrontando il razzismo, allontanandoci dalla devozione che abbiamo a spendere così tante delle nostre risorse per l’esercito. Vedo dunque una responsabilità individuale nella chiesa ma anche collettiva e poi la volontà di  rivolgerci al governo per cercare giustizia. Chiediamo una riforma della nostra polizia: troppi agenti vedono i cittadini come un nemico. Quindi abbiamo molte sfide davanti e sono sfide politiche, complesse.

E’ difficile, quando hai un’intera nazione che è stata costruita su terre rubate e creata sulle spalle degli schiavi. Fin dall’inizio, gli Usa sono una nazione reazionaria che professa idee progressiste – libertà, giustizia, uguaglianza – ma comprende una contraddizione fondamentale tra il fondamento stesso della nazione e i suoi ideali professati. Ecco perché sostengo che abbiamo bisogno di un periodo prolungato di leadership calma, matura e responsabile, e sono molto preoccupato. Potremmo cadere a pezzi come nazione: siamo a un bivio. Noi come chiese e comunità di fede, abbiamo dialoghi interreligiosi, tra il Consiglio Nazionale delle Chiese e i nostri membri insieme alla comunità ebraica, a quella musulmana, alle comunità sikh, indù, buddiste, perché vogliamo essere solidali l’un con l’altro, affrontare i pregiudizi contro alcune di queste comunità. E vogliamo lavorare insieme per riparare i problemi della nostra società e affrontare le sfide che ci attendono. Non possiamo farlo solo come cristiani, bisogna farlo su base interreligiosa ed è quello che stiamo cercando di fare”.

https://www.nev.it/nev/2021/09/16/g20-religioni-winkler-affrontare-il-razzismo-sistemico/

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