I medici gli danno dieci anni di vita: sceglie l’eutanasia

Il signor Andrew Barclay viveva a Folkestone, in Inghilterra, con la moglie. Soffriva di sclerosi multipla e da qualche mese era in carrozzella. Trattandosi di una malattia degenerativa, dal momento in cui gli era stata diagnosticata ha iniziato a mettere sul piatto della bilancia i pro e i contro della sua vita futura. La sua era una condizione di sofferenza, all’interno della quale però poteva comunque continuare a vivere una vita dignitosa, a contatto con l’affetto dei nipoti. La testa era lucida, poteva farsi la doccia, mangiare e bere autonomamente. Poteva, insomma, continuare la sua esistenza in un altro modo. Certo, più limitante, ma non meno pieno.

A offrirgli una speranza concreta erano stati gli stessi medici che avevano prognosticato un decorso della malattia lento, anche se inesorabile. “Puoi vivere ancora 10 anni”, gli avevano detto con la tipica freddezza dei medici che in questo caso era un invito a continuare a sperare e a lottare. Invece Barclay aveva deciso di smettere di lottare. E per farlo aveva chiesto alle autorità inglesi di autorizzare un trattamento eutanasico. Rifiutato, perché l’eutanasia in Gran Bretagna è proibita per legge.

Così Barclay è morto lontano da casa a 65 anni. Precisamente in una fredda e anonima stanza di Zurigo, in una delle tante cliniche dove il suicidio assistito è pratica comune e business fiorente. Si chiama “Dignitas” e mai come in questo caso il nome stride con la finalità della ragione sociale.

A nulla sono valsi i tentativi dei medici di rassicurarlo su una vita, quella sì, ugualmente dignitosa, anche se sempre più dipendente dalle cure della moglie e dei figli. Vane le lettere e le e-mail che in tanti gli hanno scritto quando il suo caso è diventato mediatico, utilizzato nella giostra infernale del “caso simbolo” per strappare una legge, che da Terry Schiavo in poi, passando per Eluana Englaro, ha visto cadere sul campo molte vittime della dittatura del desiderio e della disperazione.

Quando nei giorni scorsi il Daily Mirror ha dato la notizia della sua morte in Inghilterra si è risvegliato il dibattitto sul fine vita anche perché il titolo scelto dal quotidiano non era dei più rassicuranti: “Se stai leggendo questo, significa che sarò già morto”.

L’ex funzionario pubblico aveva chiesto al Parlamento del Regno Unito di non essere costretto a quella peregrinatio mortis ai piedi delle Alpi che invece è stato il suo ultimo viaggio. E oggi il suo caso è utilizzato dai media voraci per ammantare richieste di eutanasia di buoni sentimenti con la scusa dell’autodeterminazione. Il dottor Anthony McCarthy, leader di una associazione pro life inglese ha denunciato la manipolazione mediatica e ricordato che “il suicidio assistito per persone come Barclay è un esempio lampante di quello che solitamente viene chiamato il pendio scivoloso. Una volta che si intraprende questa china dove andremo a finire?”.

In effetti Barclay ha affrontato i 14 mesi di battaglia legale a fianco della moglie con determinazione e freddezza per affermare come diritto ciò che nessuno si sognerebbe mai di chiedere. Nonostante infatti i medici gli avessero prognosticato almeno dieci anni di vita e fosse consapevole di avere ancora forze sufficienti per affrontare l’esistenza, non accettava l’idea di vivere condannato su una sedia a rotelle. Ci sono tante persone che dopo aver accettato la croce, vivono una vita felicissima e piena di risorse.

Tuttavia Barcklay faceva emergere l’altra faccia della luna, quella più scura. “E’ vero – aveva detto poco prima di morire – ci sono tanti momenti di incredibile felicità, ma non mi pesano più che una vita che ogni giorno è destinata ad essere una lotta dal principio alla fine. E’ per questo che ho preso questa decisione, avrei sempre una ragione per andare avanti e non portare a termine questa decisione: un Natale, un compleanno, un anniversario”, diceva a chi gli chiedeva di non lasciarsi morire proprio in occasione delle festività natalizie.

“Ma la decisione è presa: ho passato 14 mesi lottando e adesso ho una sensazione di sollievo”.

Nessun Natale lo ha risvegliato. Barcklay è morto solo, anche se contornato da persone che hanno assecondato quel disegno di morte. Solo, di quella solitudine di chi non è riuscito nella vita a riconoscere il Dio incarnatosi nel bambino appena nato. Apportatore di salvezza eterna e consolatore per tutte le croci piombate sull’umanità.

Barklay sapeva di morire, ma questa non è una scusa: tutti sappiamo di morire. Nessuno di noi conosce il giorno né l’ora. Neppure lui. Semplicemente non accettava di farlo a determinate condizioni. La sua condizione è così diversa dai casi cosiddetti terminali e senza “speranza” che la letteratura mediatica ci ha inculcato per accettare impietositi il mito della dolce morte. Ormai non c’è neanche più lo scoglio dell’impossibilità di una guarigione, il cosiddetto caso disperato. Basta una diagnosi, una promessa dilatata nel tempo, e dunque impercettibile, di morte.

“Nasce l’uomo a fatica, ed è rischio di morte il nascimento”. Come riecheggiano funeste e tristi queste parole di Leopardi. Se una vita non risponde ai criteri di efficienza e salute che ci siamo dati, a che serve vivere? Non è altro che un prolungare la tua lotta con la morte, terminata la quale la notte nera potrà alzare vittoriosa la sua scure.

La società eutanasica ha escluso il Creatore che si fa presente con l’incarnazione accompagnando l’uomo in questo incontro con la morte nel corso del quale la vita fiorisce rigogliosa con le sue sorprese e i suoi frutti. Barklay invece ha voluto morire pensando che è “funesto a chi nasce il dì natale”. Ma il bambino che tra qualche giorno chiederà di essere adorato non farà altro che rinnovare questa promessa: il dì Natale è una salvezza dalle solitudini e dalla morte. E’ la capanna di Betlemme l’unica stanza nella quale può trovare albergo la parola dignità.

di Andrea Zambrano | Lanuovabq.it

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