Il malcontento del bicchiere mezzo vuoto

Lamentarsi è pratica molto diffusa quando si parla con qualcuno. Sommersi da costanti stimoli pubblicitari a non accontentarci mai e minimamente, ma di sforzarci piuttosto ad avere sempre di più e meglio, siamo avvolti da una insoddisfazione crescente. Viviamo così nello stato del cosiddetto “bicchiere mezzo vuoto”, e senza apprezzare e godere quel che abbiamo rincorriamo illusioni per riempirlo fino all’orlo. La possibilità di una connettività digitale ovunque di certo non aiuta, dato che ci mette continuamente sott’occhio quel che fanno o hanno gli altri, proponendo novità e alternative senza sosta. Stiamo così lentamente perdendo la consapevolezza delle altre opzioni a nostra disposizione, delle persone che ci circondano, degli affetti che ci arricchiscono, finendo mestamente nel turbine della scontentezza, avvolti da grigie nubi.

Questi sentimenti di frustrazione, aggravati dal bombardamento mediatico di ciò che accade nel bene e nel male altrove, stanno influenzando la nostra vita spirituale, coprendo la serenità del nostro limpido cielo. Un atteggiamento purtroppo che stiamo trascinando anche nelle chiese e che, in determinati contesti, potrebbe far sentire finanche a disagio qualcuno. La tendenza dei social media, di essere strumento di denuncia e segnalazione, ci condiziona a vedere il mondo circostante con occhiali critici. Purtroppo portiamo queste lenti anche quando ci rechiamo nella nostra chiesa. Ecco allora che abbiamo occhi solo per vedere cose sbagliate, che non funzionano o mancano, mentre viene meno la pazienza per considerare e apprezzare quanto sia buono e giusto. Poniamo attenzione alle piccole distorsioni che lasciano in noi radici di amarezza e/o disapprovazione, perché se non esposte o comprese lievitano con il tempo fino a diventare dei veri e propri impedimenti.

Accade allora che si è preda del malcontento, si diventa restii ad ogni sollecitazione spirituale, e i pastori non sembrano mai parlare degli argomenti che stanno occupando la nostra mente e mettendo in subbuglio il cuore. I canti proposti dalla corale risultano fastidiosi o fuori luogo rispetto a quegli inni che avremmo voluto ascoltare. Si aggiunga poi che vediamo finire sempre più nel dimenticatoio le nostre umili proposte, sia per iniziative di miglioramento sociale o di attività per piccoli gruppi. Tutto quello che si avvicenda nelle attività ecclesiali finisce per diventare monotono e prevedibile con il passare delle settimane. Come se non producesse alcun impatto sulla nostra vita né rispetto a quel che risulta rilevante nel mondo. Almeno così ci appare e lo percepiamo. Cresce il numero di coloro che si recano così in chiesa sempre più malvolentieri e finanche arrabbiati, svolgendo qualche compito senza prestare cura alla loro amarezza e alla rabbia; altri lentamente vanno diradando la loro presenza fino ad allontanarsi.

Credo che stiamo pagando anche la cattiva abitudine di racchiudere le nostre lamentele in un post o un tweet, un modo talmente distante, anonimo e decontestualizzato, che non può sortire alcun effetto, secondo me. Per questo sarebbe auspicabile ritornare ai contatti umani, cruciali per la crescita e l’armonia di ogni comunità ecclesiastica. Quando si hanno problemi o rimostranze sull’andamento della chiesa di appartenenza, perché nascondersi nei social o affidarsi a una fredda mail? Le parole, scritte anche in modo efficace, possono essere mal comprese o non intese. Consiglio di trovare piuttosto il coraggio di parlarne con i responsabili direttamente, i quali sicuramente saranno disponibili ad ascoltarci se abbiamo osservazioni e suggerimenti per l’interesse generale. Questo è l’approccio animato da uno spirito di amore e di edificazione, e che onora il credente.

La diffusa cultura della denuncia ci ha spinto invece a concentrare la rabbia e la frustrazione su soggetti terzi, accusando questa persona o quella istituzione per le cose che non funzionano. Ma, volendo essere onesti, che dire di noi? Quale ruolo gioca la mia condizione spirituale in questo stato di disgusto? E se la causa fosse una nostra insoddisfazione? L’insofferenza può animare mosse errate, a tal punto che nonostante si è coinvolti nelle attività delle chiese, perdiamo di vista il loro obiettivo e i destinatari, dimenticando che siamo chiamati a servire. Altre volte ricerchiamo la piena soddisfazione nel comportamento o nel servizio altrui. Entrambi sono atteggiamenti pericolosi che portano a delusioni. Potrebbe essere questo il motivo del malcontento, ossia una sorta di insofferenza spirituale che ci porta a considerare sempre manchevole la condizione o la posizione di coloro che ci circondano.

Sforziamoci di comprendere che la nostra unica perfezione è “Cristo in noi”. Diventa così necessario riconoscere le nostre debolezze e i nostri difetti, la nostra imperfezione, così che non ci aspetteremo nulla se non da Cristo. Ritengo che c’è possibilità di fermare questo pericoloso ciclo e superare le frustrazioni, prima di raggiungere un punto di non ritorno. Si tratta di smettere di ricercare le nostre comodità né di esigere di essere accontentati nelle nostre richieste quando ci rechiamo in chiesa. Nessuna persona come noi potrà mai soddisfare le nostre aspettative, così come noi non saremo in grado di soddisfare quelle di altri. Ricordiamo che ci rechiamo lì per adorare Dio, riposare alla Sua presenza, proclamare la Sua bontà. Dedicarci a questo potrebbe smorzare le nostre preoccupazioni e distoglierci da ogni forma di giudizio sulla chiesa. Non lasciamoci dominare da quel che accade attorno. Alziamo lo sguardo verso l’alto, verso il nostro Dio: siamo lì per questo.

Foto di Anton Malan, www.freeimages.com

Elpidio Pezzella | Elpidiopezzella.org

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