La tragedia silenziosa dell’Indonesia

img-_innerArtFb-_acehUna tragedia aerea, ben visibile e una tragedia legale, invisibile ai più, hanno colpito l’Indonesia in questi giorni di Ramadan. La tragedia aerea è avvenuta ieri a Medan, quando un aereo da trasporto militare, un C-130, è precipitato su un’area residenziale, abbattendo due case e un albergo. Le vittime, secondo un bilancio provvisorio, sono almeno 100. L’attenzione dei media è tornata dunque sull’Indonesia per questo drammatico incidente, ma non abbastanza da scorgere l’altra tragedia, questa volta voluta scientemente da legislatori e magistrati: la legalizzazione, di fatto, del matrimonio forzato con minorenni.

Per ironia della sorte, proprio mentre la Corte Suprema negli Usa stava votando per rendere legali i matrimoni omosessuali in tutti e 50 gli stati dell’Unione, la Corte Costituzionale dell’Indonesia votava la legalizzazione dei matrimoni con minorenni. Una ragazza, al compimento del 16mo anno di età, sarà già considerata in età matura per il matrimonio. La decisione della Corte è venuta al seguito di un parere religioso, più volte espresso dal Mui, il consiglio degli ulema (dottori della legge islamica) indonesiani. Il Mui, a quanto risulta, premerebbe per un abbassamento ulteriore dell’età matrimoniale, considerando “pronte per il matrimonio” tutte le ragazze e ragazzine che abbiano già avuto il loro primo ciclo mestruale. La decisione dei giudici supremi di fissare l’età minima a 16 anni, dunque, sarebbe già un compromesso fra il volere dei dottori della legge coranica e la legge civile finora in vigore, che fissava, come in tutti i paesi civili, l’età minima a 18 anni.

Secondo l’attivista per i diritti umani Nursjahbani Katjasungkana, sentito dall’agenzia missionaria Asia News, lamenta la possibilità di una vera legittimazione dei matrimoni forzati che già si praticano. La decisione della Corte, infatti, non fa che avallare una situazione che già esiste, pur nell’illegalità. Secondo l’Indonesian Women Coalition (Kpi), il 39% dei matrimoni celebrati nel paese riguardano ragazzine minorenni, dai 13 ai 17 anni. Di questo 39%, il 20% riguarda le 13-14enni, appena entrate nell’adolescenza. E un leader islamico locale, Syeh Puii, ha sposato una bambina di 12 anni. E’ bene ricordare che stiamo parlando di numeri immensi. La popolazione indonesiana conta 250 milioni di persone, è il paese musulmano più popoloso del mondo.

Quando si parla di ragazzine di 12, 13 e 14 anni, il termine “consenso” perde di significato. Siamo dunque di fronte a un fenomeno massiccio di matrimoni forzati. Come avviene, d’altra parte, in tante altre realtà islamiche. Si parla spesso della compravendita di schiave nello Stato Islamico e nella Nigeria occupata da Boko Haram. Ma anche in altri stati musulmani (Pakistan, Afghanistan, Niger, Mauritania) o non musulmani (India, Nepal, Sri Lanka, Madagascar) è una pratica diffusa. La donna viene letteralmente comprata, molto prima che raggiunga l’età matura o abbia anche solo la possibilità di esprimere il suo parere.

La tragedia silenziosa dell’Indonesia, comunque, non riguarda solo i matrimoni forzati, né la recente sentenza che di fatto li legittima. E’ in corso un complesso ed esteso processo di islamizzazione in tutto il paese e in particolar modo nella provincia sensibile di Aceh, dove opera da decenni un movimento islamico e indipendentista (il Gam), che ha già imposto la sharia nel territorio che controlla. Ad Aceh le donne iniziano ad essere segregate: oltre a un rigido codice di vestiario e di comportamento, ora è stato imposto loro anche il “coprifuoco”, ufficialmente per proteggerle da molestie sessuali, in pratica per non farle uscire liberamente di casa.

L’ultima sentenza, implementata con la forza, è il divieto, imposto a tutti, di vendere cibo durante il mese sacro del Ramadan, divieto che vale per tutti i giorni dall’alba alla sera. Lo ha deciso, anche qui, il Mui e ad Aceh la sentenza è stata presa molto sul serio: 9 persone condannate alla fustigazione. Il ministro per gli Affari Religiosi, Lukman Hakim Saifuddin, era favorevole all’apertura dei chioschi perché riteneva che i non musulmani (indonesiani o stranieri che fossero) non fossero tenuti a rispettare il digiuno. Contro il ministro si è schierato il presidente del Mui, Din Syamsuddin, che ha decretato la chiusura di tutti gli esercizi commerciali dall’alba al tramonto. Dove vige la sharia, cioè a Banda Aceh (nella provincia omonima), la parola del Mui ha un’importanza superiore a quella del governo. E per dimostrarlo, appunto, le autorità islamiche locali hanno compiuto la loro prova di forza. A restarne vittime sono il proprietario di un chiosco e i suoi 8 dipendenti. Sono stati arrestati durante una retata della polizia religiosa locale, che ha anche sequestrato cibi e bevande, sia ai venditori che ai loro clienti che li avevano appena comprati.

Ebbene, tutto questo avviene in un paese non arabo, che non è certamente lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante. Avviene in un paese democratico del Sudest asiatico, considerato “islamico moderato”.

di Stefano Magni

da: lanuovabq.it/

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