Per una fede autentica riconoscere i propri blocchi

Che la vita riserva problemi è un dato di realtà. Tra le difficoltà maggiori compaiono quei disagi patologici di relazione che pur procurando stati d’animo spiacevoli si permane in essi perché c’è un movente inconscio di cui la persona cerca di soddisfare, attraverso l’incontro con l’altro, seppur in modo negativo; il bisogno di stimoli e di riconoscimenti. Bisogno di carezze (Berne E., A che giochi giochiamo, ed Bompiani 1987).

In un linguaggio differente, ma sintonico, la persona cerca di procurarsi quella condizione interiore di sicurezza che avviene attraverso l’incontro con l’altro. Cerca di mantenersi in unione con l’altro pur di ricevere la sicurezza delle carezze accetta anche il subire. Nella pedagogia del vangelo, non c’è il subire ma il trovare un accordo: “Quando vai con il tuo avversario davanti al magistrato, lungo la strada cerca di trovare un accordo con lui, per evitare che ti trascini davanti al giudice (…) e ti getti in prigione” (12, 54-59). L’invito è non ad evitare ma ad accogliere ciò che non funziona nella nostra vita. Una falsa idea è quella che per risolvere una relazione disfunzionale o un problema bisogna evitare, fare finta di niente, prendendo le distanze; Ad un livello ben più profondo e inconscio si adotta il meccanismo psicologico dello spostamento, con atteggiamenti tipici: è sempre colpa degli altri; della proiezione, con affermazioni “tu mi fai sbagliare”. A chi non è mai capitato di incolpare il proprio partner, il proprio familiare, il proprio amico mentre il problema dipendeva da se stessi. Non è che facendo finta di niente che si risolvono i problemi. Ma accordarsi, non nel senso del compromesso. Ogni relazione, in quanto atteggiamento di fiducia verso l’altro e verso se stesso, non può prescindere dal riconoscimento in se dei propri blocchi, non può prescindere da un lavoro sulle proprie strutture psichiche orientate all’errore. Lo aveva capito bene San Paolo, quando afferma: «Sappiamo infatti che la Legge è spirituale, mentre io sono carnale, venduto come schiavo del peccato. Non riesco a capire ciò che faccio: infatti io faccio non quello che voglio, ma quello che detesto. Ora, se faccio quello che non voglio, riconosco che la Legge è buona; quindi non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene: in me c’è il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo» (Rm 7, 14-18). Riconosce, San Paolo, la presenza distorta del gioco patologico di relazione interpersonale e intrapersonale.. Lavorare sulle proprie distorsioni, difese, blocchi e giochi patologici che ci portano ad essere ora aggressivi ora remissivi, ci aiuta a discernere le parti sane da quelle malate per trasformarle in risorse (Riccardi P., Parole che trasformano, psicoterapia dal vangelo ed Cittadella, 2015). In questo caso un lavoro psicologico serio diventa preludio al sano cammino spirituale. Perché capita a tutti anche a chi si professa dentro una confessione religiosa di avvertire le insicurezze infantili, le distorsioni di pensiero, le strutture nevrotiche, le sofferenze e senza esserne consapevoli si esalta una fede nevrotica.

Ma tutto questo non trova riscontro nel linguaggio di Gesù Cristo che vuole una fede autentica, una persona coerente, libera dai blocchi interiori per potere meglio incamminarsi sulla strada della ricerca spirituale inquadrabile nella sana relazione con Dio.

Pasquale Riccardi | Notiziecristiane.com

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