La sofferenza permessa da Dio serve a formarci e a trasformarci

cambiamento“Il fine giustifica i mezzi!” (Machiavelli). Questo era il mio motto quando, da giovane studente, sessantottino convinto, lottavo contro l’ingiustizia sociale, a favore dell’eguaglianza ad ogni costo. Primo negli scioperi in classe, nelle cordate e nelle rimostranze ai professori, vivevo come uno spirito ribelle e contestatore, sempre a favore dei più deboli ed in lotta contro il potere forte.

Grazie al “talento” di cui Dio mi aveva dotato (allora pensavo fosse merito mio), qualche anno più tardi, avevo guadagnato una posizione di tutto prestigio come dirigente responsabile in una grossa azienda parastatale, mantenendo però sempre il mio spirito combattivo in favore degli operai che coinvolgevo attivamente nella gestione dell’azienda con apprezzabili risultati già a breve termine.

Il manager alternativo era nato e questi ero io! Sempre più convinto delle mie possibilità e delle mie capacità, uomo adulato ed onorato, realizzai e mi convinsi che il diritto alla proprietà di una casa, fosse cosa sacrosanta anche per chi viveva di puro stipendio.

Ecco il costruttore di case in cooperativa! Quasi cinquecento appartamenti costruiti in dieci anni. Orgoglio, gloria, potere, compiacimento, questi erano i sentimenti che nutrivo. Realizzai, in poco tempo, d’essere il centro dell’universo in cui tutto dipendeva da me, d’essere il più bravo, cui ogni metodo e mezzo era permesso pur di raggiungere gli scopi che assieme ai collaboratori mi ero prefisso.

Il maligno, con la sua subdola arguzia, era già entrato in me! Aveva, per poco prezzo, acquistato la mia anima, ma il piano che Dio aveva per me, era già iniziato. Alleluia!

Alla fine degli anni novanta, alle cinque di una mattina, davanti allo sgomento ed allo sconforto di mia moglie e dei miei figli, fui letteralmente prelevato dalla “Digos” e portato nella Casa Circondariale di Via Spalato a Udine, con l’accusa d’associazione per delinquere e concorso in truffa aggravata ai danni della Regione. Rimasi per tre mesi in carcerazione preventiva, periodo in cui si svolsero le indagini preliminari. Seguì il processo di primo grado con una condanna detentiva a sette anni confermata poi nel processo d’Appello. Fu il periodo più buio della mia vita.

Le mie vicissitudini personali e quelle dei miei collaboratori, comparivano ogni giorno, a grossi titoli, sui quotidiani. Ero senza lavoro, ma i miei figli, pur se “all’indice di tutti”, mi erano sempre vicini, assieme ai pochissimi amici fedeli che ancora osavano pubblicamente palesarmi la loro amicizia.

Fu allora che compresi che “il fine non giustifica i mezzi”!

Miei carissimi, anche se lo scopo finale è lodevole, bisogna pur sempre rispettare le regole imposte dalla società in cui viviamo, perché questo fa parte dei “Principi d’Autorità” che Dio ha stabilito sulla terra, al pari di quelli della famiglia, del lavoro e della Comunità cui apparteniamo!

“La sapienza consiste nella scelta dei fini migliori e nell’uso dei mezzi più appropriati per raggiungerli (Watson). Questo era ora il mio nuovo motto.

La Corte di Cassazione “ridusse” la mia pena a cinque anni, derubricando la truffa nei confronti dei soci, come non avvenuta, avendo, gli stessi, beneficiato dell’assegnazione in proprietà dell’immobile. Si delineava così la possibilità della revisione del processo stesso, con ulteriore notevole riduzione della pena, ed il fatto d’essere incensurato avrebbe forse anche potuto evitarmi la carcerazione. I quotidiani di allora evidenziarono questo come una gran vittoria per me e per il mio team. Dio però non la pensava proprio così!. Voleva per Sé quel figlio scellerato ed indegno sì, ma amato all’inverosimile! Sia fatta sempre la Sua volontà! Grazie o Signore!

Il 26 febbraio 2002, alle ore 17, davanti all’ufficio dove lavoravo, fui inaspettatamente prelevato dalla “Digos” e condotto nelle carceri di Via Spalato per scontare in via definitiva la mia condanna a cinque anni. Stranamente, poiché fisicamente mi sentivo in perfetta salute, fui alloggiato in una cella dell’infermeria carceraria. Pensavo (allora), fosse stata un’idea del Magistrato, ma non era così! Fu un miracolo di Dio che aveva predisposto tutto per ritrovare questo figlio infame ed indegno!

Rimasi nella cella, disteso per tre giorni sulla branda, completamente vestito e senza toccare cibo. Qualche giorno più tardi, il mio compagno di disavventura, padovano d’origine, m’invitò a scendere con lui in una sala colloqui per presentarmi al Pastore della Chiesa Evangelica, (aveva compilato e firmato lui stesso, a mia insaputa, la domandina occorrente).

E’ così che conobbi Malcolm, l’uomo che Dio aveva posto sulla mia strada!

Per prima cosa mi abbracciò, mi chiese se avessi un qualche bisogno personale e s’informò sulle condizioni della mia famiglia. Leggemmo, poi, qualche versetto della Bibbia ed uno in particolare colpì il mio cuore: “Fratelli, che dobbiamo fare?” E Pietro disse a loro: “Ravvedetevi e ciascuno di voi sia battezzato nel nome di Gesù Cristo!” (Atti 2:37-38).

Tutto mi era avverso. Avevo perso parte della famiglia, molti dei miei amici, la dignità e la libertà, avevo in sostanza perso tutto! Ecco la risposta dell’uomo di Dio alla domanda. “Cosa faccio adesso?” “Ed io, Franco, cosa dovevo fare ora?”. “Ravvediti, cambia il tuo cuore, nel nome di Gesù Cristo”. Lui, il Re, il Figlio di Dio, fattosi uomo, povero tra i poveri, umile tra gli umili, bistrattato da tutti, è morto sulla croce per salvare me, figlio Suo, scellerato ed indegno.

Mi ritirai nella mia cella, e nel buio della notte pensai di recitare qualche preghiera. Era questa un’abitudine dell’infanzia che avevo abbandonato da molto tempo. M’inginocchiai davanti al letto, ma mi resi conto d’aver dimenticato le parole. Alzai gli occhi nel tentativo di rammentarle, quando, all’improvviso, m’invase l’animo una sensazione che non avevo mai provato prima. Era come se un essere infinito ed onnipotente, che tutto conosceva, mosso dal più profondo e tenero interesse per me, mi rivelasse la Sua pietà ed il Suo amore. I miei occhi nulla vedevano, né alcun segnale le mie orecchie percepivano, ma io avevo la piena certezza che “Colui che non conoscevo”, mi si avvicinava, per la prima volta, teneramente, nella pienezza del Suo amore. Piansi a lungo e con lacrime cocenti. Quando riaprii gli occhi, mi sentii pervaso da qualcosa che non avevo mai sperimentato prima. La pace di Dio, che mi aveva trasformato in una notte, mi colmò. E’ vero, la sofferenza, permessa da Dio, serve a formarci, anzi, a trasformarci.

Il giorno seguente, il mio primo pensiero fu quello di trovare una Bibbia. Mi fu portata da mio figlio al primo colloquio e da allora è diventata la mia lettura quotidiana.

Oggi, il mio motto, anzi, la mia vita, si riconosce nelle parole di Gesù: “Io sono la via, la verità e la vita” (Gv. 14:6).

Cari, che Gesù sia sempre presente nella vostra vita, poiché Lui solo è la verità e la via che porta alla salvezza ed alla pace.

Vs. Franco

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